domenica 21 agosto 2016



Mi sono avvicinata agli autori sudamericani sempre con un certo reverenziale rispetto e stupore; tanto per fare qualche nome, Gabriel Garcia Marquez e Isabel Allende non mancano mai di incantarmi con le loro storie, trasportandomi in quelle terre che hanno dentro di sé insieme il sapore amaro di vite dure condotte con dignità  e la dolcezza della magia, sempre presente, persino nel dolore.
Ecco che si aggiunge a questo Olimpo letterario, Rita Indiana, dominicana, in tutto e per tutto un’artista completa e poliedrica: scrittrice, blogger, attivista per i diritti LGBT e leader di Rita Indiana Y Los Misterios un gruppo di merengue alternativo.
I gatti non hanno nome” è un romanzo che ha nel suo Dna la musicalità (grazie anche all’ottima traduzione) e i sapori di Santo Domingo. La storia è narrata in prima persona, da un’adolescente, senza nome, che racconta un’estate vissuta mentre i suoi genitori sono in giro per l’Europa e lei lavora come assistente nella clinica veterinaria dello zio.
In un quadernetto annota i nomi con cui potrebbe chiamare un gatto randagio che si aggira nei dintorni della clinica, prendendo spunto da ciò che avviene fuori e dentro di sè.
I gatti non hanno nome, questo lo sanno tutti. Ai cani, invece, qualunque cosa va bene, si buttano lì una o due sillabe a caso e gli rimangono appiccicate con il velcro: Wally, Furia, Pelusa, ecc. Il problema è che senza un nome i gatti non rispondono, e perché mai dovremmo volere un animale che non viene quando lo si chiama? Ci si adatta: diciamo Aníbal, Aprile, Pelusa e i nomi rimbalzano come acqua sul pelo del gatto. Diciamo Merlín, Alba, Jesús e i gatti, come se non li riguardasse, vanno a leccarsi il culo in direzione opposta. Da buttarsi dalla finestra.
Potrebbe sembrare un romanzo banale ed è sicuramente “banalizzante” riassumerlo in poche parole, perché “I gatti non hanno nome” è anche la storia di personaggi indimenticabili che fanno da contorno alla storia, che poi tanto contorno non sono, e diventano un grande stimolo di riflessione per una ragazzina che con l’ingenuità di un’infanzia che  sta man mano per fare posto ad un’adolescenza piena di turbamenti, racconta d’impulso tutto ciò che prova.
Ecco quindi fare capolino: Zia Clelia, la moglie dello zio veterinario, architetto ed impresario edile, donna dal carattere autoritario a cui come dice la protagonista compaiono a volte, quando è arrabbiata, “delle scritte al neon che dicono ROMPERE I COGLIONI ALL’UMANITÀ";  lo zio Fin, il veterinario, marito succube e convertito al buddismo, dopo l’incontro con un monaco tibetano per mettere a tacere la tristezza che sente spesso dentro di sé; Radames, l’operaio haitiano che ha la voce “come uno sciroppo per la tosse”, la nonna della protagonista, ormai persa nel circolo vizioso dei suoi ricordi; Armenia, la donna delle pulizie della zia Clelia, che da bambina aveva il potere magico di far guarire dalla tubercolosi mettendo un cucchiaio bagnato di alcool nel corpo di un malato disteso ed estraendo il male “ in forma di vermi, pietre e ricci”; Derecho, che ha abbandonato la scuola da piccolo e si è appassionato all’arte della tappezzeria così tanto, da conoscerne  ormai ogni segreto e riuscire  ad individuare persino nelle persone il punto in cui, inevitabilmente,  “ si sarebbero scucite quando fosse arrivata la loro ora”; Uriel, il cugino spuntato dal nulla improvvisamente, figlio illegittimo dello zio Fin, che porta con sé un passato di dolore; infine Vita, l’amica del cuore, la ragazzina italiana piena di entusiasmo e dalla vita strampalata.
Un caleidoscopio di personaggi che arricchiscono con la loro presenza questo romanzo, ognuno con la propria magia, e che guidano senza rendersene conto, la protagonista senza nome verso una maggiore consapevolezza di se stessa e della propria identità sessuale in un periodo delicato come l’adolescenza.
Rita Indiana ha saputo raccontare questa storia con uno stile fluido e scorrevole, pregno della musicalità caraibica e di immagini metaforiche straordinarie, per niente artificiose, consegnando alla letteratura un personaggio, come la ragazzina senza nome che anche il lettore più distratto non potrà dimenticare.

lunedì 15 agosto 2016


“Stiracchia gli arti rattrappiti, si dà una scrollatina, srotola la coda e assume forma di gatto. Anzi, di gattone.
Grigio chiaro con zampe tigrate, tipo contrada del Palio di Siena, occhi verdi da mongolo, gorgiera di collana grigia e nera sotto a due ganasce da cartone animato.
Se avesse mantello e stivali potrebbe essere il gatto del marchese di Carabas, un tripudio di micio, anche se lievemente destabilizzato”.
Ecco Giuda, un imponente micio, fare il suo ingresso trionfante già dall’incipit di questo romanzo, in una mattina ordinaria che ordinaria non lo sarà affatto.
Il micione è stato chiesto  “in prestito” al suo padrone (che brutta parola per la protagonista) per mettere fine alle richieste di amore della gatta Micioara, in perenne calore.
Quello che la protagonista pensava si sarebbe risolto in pochi minuti, diventa però una vera odissea. I due gatti si rincorrono miagolando ferocemente per tutta la casa, rompendo l’impossibile e urinando dappertutto, in una lotta d’amore che sconcerta la padrona, la quale, nonostante il trambusto, deve anche recarsi al lavoro (si può ben capire con quale stato d’animo e concentrazione).
La giornata trascorre in questo modo tra tonnellate di croccantini, lamentele e minacce dei vicini, telefonate invadenti della madre, per niente amante degli animali, e consigli saccenti di sedicenti amici gattofili.
Il romanzo è un lungo monologo della protagonista, che descrive con un ritmo esagitato (e non può essere altrimenti) ciò che sta avvenendo in questa giornata particolare, con tratti a volte comici, che fanno sorridere e fanno perdonare alcuni concetti che ripete un po’ troppo spesso. La “padrona” di Micioara, prende spunto poi, dall’esuberanze amorose dei due mici, per riflettere con un po’ di malinconia, anche sulla propria vita, sulla propria solitudine, su quella sorta di maleficio che è calato sulle due “femmine” della casa, che chissà, Giuda, con la sua irruenza virile riuscirà a spezzare.
“Mi esortava Micioara a riappropriarmi di qualcosa che mi apparteneva, a tornare nel bosco dove io mi do pace, a non dimenticare la mia parte animale, della quale troppo spesso noi umani ci dimentichiamo, perché reimparare a vivere dagli animali è fondamentale se uno vuole salvarsi.
Hai freddo?Rintanati. Piove? Non uscire. Non hai fame? Non mangiare. Ti senti la febbre? Mettiti a dormire. Qualcosa ti fa male? Evitala”.

L’autrice in questo romanzo ha saputo con lodevole padronanza gestire una storia che sarebbe potuta cadere facilmente nel banale, riuscendo ad incastrare senza stonature elementi divertenti e introspettivi insieme. Una bella storia che lascia alla fine il lettore con un animo più leggero e sorridente senza però negargli il dolce retrogusto di una bella morale come lo possono fare solo le più belle favole.