Lina è una quindicenne lituana, figlia del rettore dell’Università, e la notte
del 14 giugno 1941 vede cambiare la sua vita drammaticamente e per sempre.
“Mi
portarono via in camicia da notte.
Ripensandoci,
i segnali c’erano tutti: foto di famiglia bruciati nel camino, la mamma che nel
cuore della notte cuciva l’argenteria e i gioielli più belli nella fodera del
suo cappotto e il papà che non tornava dal lavoro. Il mio fratellino,
Jonas, continuava a fare domande. Anch’io ne facevo, ma forse mi rifiutavo di
riconoscere i segnali. Solo più tardi mi resi conto che la mamma e papà
intendevano scappare con noi. Ma non scappammo.
Fummo
portati via.”
Gli
agenti della polizia sovietica irrompono
con violenza in casa della ragazza: la sua famiglia è nella lista nera dei
sovietici, e così, come lei scoprirà più tardi, tanti altri lituani.
“Chiusi
la porta del bagno e mi guardai allo specchio. Non avevo idea di quanto in
fretta sarebbe cambiato il mio viso, sfiorendo. Se l’avessi saputo, avrei
fissato più a lungo il mio riflesso, cercando di memorizzarlo. Era l’ultima
volta, per più di dieci anni, in cui mi sarei guardata in uno specchio vero”.
Lina,
la mamma e il fratellino undicenne Jonas vengono portati via e dopo essere stati
ammassati sulla banchina della stazione ferroviaria insieme a tanta altra gente
in preda al panico, vengono caricati su vagoni fatiscenti per bestiame e
intraprendono un viaggio che durerà settimane, settimane di fame, di sete, di
pidocchi e malattie fino all’arrivo in Siberia, in campi di lavoro orribili
dove il clima gelido e la mancanza di cure e di cibo mieteranno vittime a
migliaia.
Lina,
conoscerà il puro altruismo dell’essere umano ma anche il suo lato più
abietto, dettato dalla paura della morte. La ragazza, brava disegnatrice,
documenterà tutto su qualsiasi pezzo di carta e con qualsiasi
mezzo che avrà a portata di mano, per far giungere al padre, prigioniero
in un
altro campo di lavoro, notizie della famiglia; questo sarà un modo anche per
lei, per non soccombere, per non darla vinta ai suoi aguzzini che li trattano
come prostitute e criminali.
“Il successo significava sopravvivere. Il fallimento
significava morire. Io volevo la vita. Volevo sopravvivere.”
Tra le varie deportazioni, quella dei popoli
baltici, è quella taciuta più a lungo, e per questo tra le le più atroci: nel
pieno della seconda guerra mondiale, intrappolata tra l’impero nazista e quello
sovietico, la voce dei popoli baltici (anche estoni e lettoni subirono la
stessa sorte) venne soffocata nella barbarie.
Ruta Sepetys, figlia di rifugiati lituani, prendendo spunto dai racconti di
lituani sopravvissuti ha permesso finalmente che la loro sofferenza,
costretta a rimanere sopita anche fino a molto tempo dopo la liberazione (pena
la morte), venisse alla luce, restituendo loro la dignità che per 50 anni i
sovietici gli avevano sottratto.
Con uno stile piano, ma non scevro da una profonda partecipazione emotiva,
Ruta, al suo romanzo d’esordio, riesce a far sentire nel profondo, il dolore e
la perdita di qualsiasi umanità che questi eroici popoli hanno dovuto subire.
Chiudo con le parole significative dell’autrice presenti nelle sue note:
“Alcune guerre si vincono con i bombardamenti. Per le popolazioni del
Baltico questa guerra è stata vinta credendoci.
Nel 1991, dopo cinquant’anni di brutale occupazione, i tre paesi baltici
hanno riconquistato l’indipendenza, in maniera pacifica e con dignità. Hanno
scelto la speranza e non l’odio e hanno dimostrato al mondo che anche alla fine
della notte più buia c’è la luce. Per favore fate ricerche sull’argomento.
Parlatene. Queste tre minuscole nazioni ci hanno insegnato che l’amore è
l’esercito più potente. Che sia amore per un amico, amore per la patria, amore
per Dio o anche amore per il nemico, in ogni caso l’amore ci rivela la natura
davvero miracolosa dello spirito umano”.
Ora a voi il passaparola.
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