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sabato 22 ottobre 2016


Lina è una quindicenne lituana, figlia del rettore dell’Università, e la notte del 14 giugno 1941 vede cambiare la sua vita drammaticamente e per sempre.

Mi portarono via in camicia da notte.
Ripensandoci, i segnali c’erano tutti: foto di famiglia bruciati nel camino, la mamma che nel cuore della notte cuciva l’argenteria e i gioielli più belli nella fodera del suo cappotto e il papà che non  tornava dal lavoro. Il mio fratellino, Jonas, continuava a fare domande. Anch’io ne facevo, ma forse mi rifiutavo di riconoscere i segnali. Solo più tardi mi resi conto che la mamma e papà intendevano scappare con noi. Ma non scappammo.
Fummo portati via.

Gli agenti della polizia sovietica  irrompono con violenza in casa della ragazza: la sua famiglia è nella lista nera dei sovietici, e così, come lei scoprirà più tardi, tanti altri lituani.

Chiusi la porta del bagno e mi guardai allo specchio. Non avevo idea di quanto in fretta sarebbe cambiato il mio viso, sfiorendo. Se l’avessi saputo, avrei fissato più a lungo il mio riflesso, cercando di memorizzarlo. Era l’ultima volta, per più di dieci anni, in cui mi sarei guardata in uno specchio vero”.

 Lina, la mamma e il fratellino undicenne Jonas vengono portati via e dopo essere stati ammassati sulla banchina della stazione ferroviaria insieme a tanta altra gente in preda al panico, vengono caricati su vagoni fatiscenti per bestiame e intraprendono un viaggio che durerà settimane, settimane di fame, di sete, di pidocchi e malattie fino all’arrivo in Siberia, in campi di lavoro orribili dove il clima gelido e la mancanza di cure e di cibo mieteranno vittime a migliaia.
Lina, conoscerà il puro altruismo dell’essere umano ma anche il suo lato più abietto, dettato dalla paura della morte.  La ragazza, brava disegnatrice, documenterà tutto su qualsiasi pezzo di carta e con qualsiasi mezzo che avrà a portata di mano, per far giungere al padre, prigioniero in  un altro campo di lavoro, notizie della famiglia; questo sarà un modo anche per lei, per non soccombere, per non darla vinta ai suoi aguzzini che li trattano come prostitute e criminali.

Il successo significava sopravvivere. Il fallimento significava morire. Io volevo la vita. Volevo sopravvivere.

Tra le varie deportazioni, quella dei popoli baltici, è quella taciuta più a lungo, e per questo tra le  le più atroci: nel pieno della seconda guerra mondiale, intrappolata tra l’impero nazista e quello sovietico, la voce dei popoli baltici (anche estoni e lettoni subirono la stessa sorte) venne soffocata nella barbarie.
Ruta Sepetys, figlia di rifugiati lituani, prendendo spunto dai racconti di lituani sopravvissuti ha permesso finalmente che la loro sofferenza, costretta a rimanere sopita anche fino a molto tempo dopo la liberazione (pena la morte), venisse alla luce, restituendo loro la dignità che per 50 anni i sovietici gli avevano sottratto.
Con uno stile piano, ma non scevro da una profonda partecipazione emotiva, Ruta, al suo romanzo d’esordio, riesce a far sentire nel profondo, il dolore e la perdita di qualsiasi umanità che questi eroici popoli hanno dovuto subire.

Chiudo con le parole significative dell’autrice presenti nelle sue note:

Alcune guerre si vincono con i bombardamenti. Per le popolazioni del Baltico questa guerra è stata vinta credendoci.
Nel 1991, dopo cinquant’anni di brutale occupazione, i tre paesi baltici hanno riconquistato l’indipendenza, in maniera pacifica e con dignità. Hanno scelto la speranza e non l’odio e hanno dimostrato al mondo che anche alla fine della notte più buia c’è la luce. Per favore fate ricerche sull’argomento. Parlatene. Queste tre minuscole nazioni ci hanno insegnato che l’amore è l’esercito più potente. Che sia amore per un amico, amore per la patria, amore per Dio o anche amore per il nemico, in ogni caso l’amore ci rivela la natura davvero miracolosa dello spirito umano”.

Ora a voi il passaparola.

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