Mi
sono avvicinata agli autori sudamericani sempre con un certo reverenziale
rispetto e stupore; tanto per fare qualche nome, Gabriel Garcia Marquez e Isabel Allende non mancano mai di incantarmi con le loro storie, trasportandomi in quelle terre che hanno
dentro di sé insieme il sapore amaro di vite dure condotte con dignità e la dolcezza della magia, sempre presente,
persino nel dolore.
Ecco
che si aggiunge a questo Olimpo letterario, Rita Indiana, dominicana,
in tutto e per tutto un’artista completa e poliedrica: scrittrice, blogger,
attivista per i diritti LGBT e leader di Rita Indiana Y Los Misterios
un gruppo di merengue alternativo.
“I gatti non hanno nome” è un romanzo che ha nel suo Dna la
musicalità (grazie anche all’ottima traduzione) e i sapori di Santo Domingo. La
storia è narrata in prima persona, da un’adolescente, senza nome, che racconta
un’estate vissuta mentre i suoi genitori sono in giro per l’Europa e lei lavora
come assistente nella clinica veterinaria dello zio.
In un quadernetto annota i nomi con cui potrebbe chiamare un gatto randagio che si aggira nei dintorni della clinica, prendendo spunto da
ciò che avviene fuori e dentro di sè.
“I gatti non hanno nome, questo lo sanno
tutti. Ai cani, invece, qualunque cosa va bene, si buttano lì una o due sillabe
a caso e gli rimangono appiccicate con il velcro: Wally, Furia, Pelusa, ecc. Il
problema è che senza un nome i gatti non rispondono, e perché mai dovremmo
volere un animale che non viene quando lo si chiama? Ci si adatta: diciamo
Aníbal, Aprile, Pelusa e i nomi rimbalzano come acqua sul pelo del gatto.
Diciamo Merlín, Alba, Jesús e i gatti, come se non li riguardasse, vanno a
leccarsi il culo in direzione opposta. Da buttarsi dalla finestra.”
Potrebbe sembrare un romanzo banale ed è sicuramente “banalizzante”
riassumerlo in poche parole, perché “I gatti non hanno nome” è anche la storia
di personaggi indimenticabili che fanno da contorno alla storia, che poi tanto
contorno non sono, e diventano un grande stimolo di riflessione per una
ragazzina che con l’ingenuità di un’infanzia che sta man mano per fare posto ad un’adolescenza
piena di turbamenti, racconta d’impulso tutto ciò che prova.
Ecco quindi fare capolino: Zia Clelia, la moglie dello zio
veterinario, architetto ed impresario edile, donna dal carattere autoritario a
cui come dice la protagonista compaiono a volte, quando è arrabbiata, “delle
scritte al neon che dicono ROMPERE I COGLIONI ALL’UMANITÀ"; lo zio
Fin, il veterinario, marito succube e convertito al buddismo, dopo l’incontro
con un monaco tibetano per mettere a tacere la tristezza che sente spesso dentro
di sé; Radames, l’operaio haitiano che ha la voce “come uno sciroppo per la tosse”, la nonna della protagonista, ormai persa nel circolo vizioso dei
suoi ricordi; Armenia, la donna delle pulizie della zia Clelia, che da bambina
aveva il potere magico di far guarire dalla tubercolosi mettendo
un cucchiaio bagnato di alcool nel corpo di un malato disteso ed estraendo il
male “ in forma di vermi, pietre e
ricci”; Derecho, che ha abbandonato la scuola da piccolo e si è
appassionato all’arte della tappezzeria così tanto, da conoscerne ormai
ogni segreto e riuscire ad individuare persino nelle persone il
punto in cui, inevitabilmente, “ si sarebbero scucite quando
fosse arrivata la loro ora”; Uriel, il cugino spuntato dal nulla
improvvisamente, figlio illegittimo dello zio Fin, che porta con sé un passato
di dolore; infine Vita, l’amica del cuore, la ragazzina italiana piena di
entusiasmo e dalla vita strampalata.
Un caleidoscopio di personaggi che
arricchiscono con la loro presenza questo romanzo, ognuno con la propria magia, e che guidano senza rendersene conto, la protagonista senza nome verso una
maggiore consapevolezza di se stessa e della propria identità sessuale in un
periodo delicato come l’adolescenza.
Rita Indiana ha saputo raccontare questa
storia con uno stile fluido e scorrevole, pregno della musicalità caraibica e
di immagini metaforiche straordinarie, per niente artificiose, consegnando alla
letteratura un personaggio, come la ragazzina senza nome che anche il lettore
più distratto non potrà dimenticare.
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