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giovedì 9 aprile 2020




Sono nata in uno dei giorni con meno luce dell’anno, nel cuore più profondo della notte.
Soffiava una bora fortissima.
Bora scura con neve e ghiaccio.”
Con questo incipit suggestivo Susanna Tamaro in “Ogni angelo è tremendo” fa la sua entrata sulla scena della vita, in una Trieste di fine anni ‘50, “cupa, sinistra, piena di fumo”, colpita da un vento gelido come quello che soffia costantemente nella sua famiglia e che man mano disintegrerà i legami affettivi, riducendo ciascun membro ad una monade incapace di comunicare.
Quel senso di gelo che avvolgerà i suoi familiari in una spirale di incomprensioni, egoismi, assenze, disamore e indifferenza, la indurranno a sviluppare già da bambina un senso profondamente doloroso della sofferenza:
Perché piangi?
Perché ti butti per terra?
Perché ti manca il fiato?
Perché?Perchè?Perchè?
Perché vivo con un nemico dentro, con la nebbia, con la notte, con lo smarrimento. Perché vedo il dolore e non posso farci niente. Perché vedo l’incompiutezza, il vuoto, il fallimento e non ne capisco il senso. Perché sono sola, nessuno mi ascolta, nessuno mi prende per mano.[…] Piango perché ho paura del vuoto, del buio e della solitudine che mi attendono.[…] A quell’età non conoscevo i veri nomi dei sentimenti. Soltanto crescendo ho compreso che quello stato di profonda sofferenza altro non era che compassione”.
La bambina “iceberg”, così si definisce più volte nell’autobiografia è invece una bambina che ha il fuoco dentro, che vorrebbe esternarlo, ma non riesce, e quando lo fa, usa modi incomprensibili e autodistruttivi acuendo il suo senso di solitudine.
Si fanno spazio dentro di lei, domande inquiete sul senso della morte nonché un estremo desiderio di scomparire negli abissi della terra, nella famosa Fossa delle Marianne come racconta più volte, perché “sulle mie spalle di bambina si posava il dolore del mondo.”
Sebbene però, i genitori siano la causa della sua depressione, Susanna non ha mai parole d’odio nei loro confronti, anzi, il racconto dei loro numerosi abbandoni e gesti anaffettivi non è mai pieno d’astio ma piuttosto del candore di una bambina, avida anche delle briciole d’affetto che ogni tanto sono riusciti a mostrare; perciò è ancora più ammirevole leggere parole d’amore verso il padre e la madre
“Non avrei potuto, infatti, affrontare questa straordinaria avventura se i miei genitori non mi avessero dato il dono della vita, per questo sarò loro eternamente grata.
Con il passare del tempo e grazie ad incontri come quello con la tata o con la nonna materna, a cui si legherà profondamente come se fosse sua figlia, Susanna riuscirà ad emergere dal gorgo di quei rapporti umani, che invece di proteggerla e iniziarla alla vita, l’hanno segnata profondamente, per entrare fiduciosa nelle meraviglie del mondo. 
E’ interessante come faccia solo qualche accenno alla vocazione letteraria, scoperta tra l’altro più avanti negli anni, perché i libri nella sua vita hanno sempre avuto un ruolo marginale.
Però è ancora più interessante scoprire come la sua passione per la zoologia e la botanica, di cui parla in maniera estesa, abbia alla fine le stesse origini della sua illuminazione tardiva per la scrittura.
“Capire la ragione di ogni cosa e saper scoprire la relazione di tutto ciò che si vede – sono queste le principali attitudini dell’appassionato naturalista. E se fossero anche quelle dello scrittore? Se, prima di tutte le teorie, le strutture, le tecniche ci fosse proprio questo, l’infantile desiderio di decifrare il mondo intorno? La materia vivente mi racconta la sua storia e, da questa storia, io so far derivare tutte le altre storie. […] Il territorio su cui mi muovo è quello della devozione alla realtà.”

In quest’ autobiografia Susanna Tamaro, con il suo stile asciutto, privo di pudori e sentimentalismi nostalgici, ci invita coraggiosamente nella sua intimità e al lettore che riesce ad entrare in sintonia con il suo vissuto, vuole trasmettere non un senso d’angoscia  e sofferenza, nonostante questi sentimenti permeino gran parte del racconto, ma che è possibile usare anche le negatività della vita come elementi salvifici e scoprire così la gioia di vivere e l’abilità di sapersi guardare dentro.
“La vita come stabilità delle cose, […] ma paradossalmente, per raggiungere la stabilità, bisogna portare all’estremo l’instabilità. L’uomo realizza se stesso alla massima potenza soltanto quando accetta la legge profonda del cambiamento”.

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