domenica 10 marzo 2024


 Ciao a tutti,

oggi vi presento un’altra chicca edita da “Il ramo e la foglia edizioni”: “Agatino il guaritore” di Massimiliano Città.

A partire dall’immagine sulla copertina e il titolo dell’opera, abbiamo  l’idea che verrà presentata al lettore una storia di gente semplice, e si avvertono già gli odori e i sapori di paese.

In queste pagine ci si occuperà della seconda strada, quella che si conclude circa cento metri dopo, al sorgere di una cancellata verde muschio, avvinghiata dalla ruggine e dalla luce di una lampadina che a singhiozzo dovrebbe indicare l’esistenza di un qualche inquilino nella modesta abitazione. Difficilmente si finirebbe ad imbattersi in quella proprietà, senonchè nella zona, per un vasto raggio di chilometri e un lungo elenco di paesini, l’occupante della suddetta abitazione è particolarmente noto.

“Amico dei bisognosi”, così il proprietario spaccia il suo nome. Almeno spacciava. Perchè, a dire il vero, è stato sufficiente un paio d’anni per non avere più bisogno di alcuna pubblicità. Il passaparola era stato efficace. La biforcazione, sconosciuta ai moderni ritrovati della tecnologia, sapeva ben essere trovata da chi la cercava.

Gente di paese, di piccole pretese e qualche ambizione sopita. Uomini e donne dal lavoro saltuario e dalla paga ridotta, gente d’amori travagliati e lunghi travagli da non riuscire più a sopportare i giorni a venire. Gente che soffoca negli scantinati, dove la luce del sole arriva avara così come il conforto dei vicini che sanno ma non vogliono vedere.

In questo romanzo, la figura di Agatino rappresenta il cardine che collega tutti gli altri personaggi, ma paradossalmente è anche la figura più enigmatica e complessa.

La sua abitazione, nonostante sia persa nel verde ad un bivio quasi impossibile da identificare, è la casa più frequentata, dove la gente è disposta a fare la fila anche al freddo e sotto la pioggia pur di essere ricevuta.

Ognuno cerca in Agatino colui che lo risolleverà dalla miseria e dalla disperazione in cui versa, e così incontriamo la nonna, una donna in gioventù bellissima e corteggiatissima, che in vecchiaia ormai corrosa dalle vicissitudini della sua vita, dona la giovanissima nipote ad Agatino per consentirle un futuro decente; c’è il giocatore schiavo  e vittima del gioco che chiede un aiuto per la sua situazione; c’è il bambino nato cieco che i genitori, ormai disillusi dalla medicina, portano da Agatino perchè “faccia il miracolo”.

Agatino, però chi è? E’ un guaritore, un amico dei bisognosi, colui che elimina le pene, oppure un usuraio, un manipolatore?  Lungo tutto il romanzo si dispiega la sua figura, senza mai definirla perchè contiene in sè il bene e il male in un’armonia dei contrari che concilia sia i suoi devoti che i suoi denigratori : è un manipolatore sì, ma è anche vero che aiuta la gente, perchè nessuno è mai andato via scontento o disperato, una soluzione, magicamente, è sempre riuscita a trovarla.

Agatino, di cui viene raccontata l’infanzia infelice, non amato dalla madre e fatto allontanare da lei stessa pur di non doverci aver a che fare, riesce a calamitare, grazie al suo incredibile carisma, l’affetto della gran parte della gente, in una sorta di “rimborso affettivo” che gli dona la vita, nonostante l’esistenza di una manciata di persone che invece non lo vede di buon occhio.

Per tanti anni, Agatino riesce a tessere le fila e a manovrare le vite delle persone che gli si rivolgono, fino a che non avverrà “qualcosa” di incredibile e insondabile, che segnerà la sua vita drammaticamente e per la prima volta si renderà conto che esiste qualcosa al di fuori di lui su cui non può aver il controllo e di cui è lui stesso strumento.

In questo romanzo, Massimiliano Città riesce magistralmente con uno stile scorrevole e lineare, a dare voce agli abitanti dei paesini limitrofi alla casa di Agatino, con le loro vite semplici, che sanno di terra e sole; la loro voce si leva così forte da diventare essi stessi un personaggio a più voci; un romanzo corale insomma, fatto di tante storie che compongono il puzzle di cui Agatino è il fulcro, la calamita esistenziale.

Agatino rappresenta il riflesso di ciò che ognuno ha dentro di sé, perciò quanti Agatino abbiamo incontrato nella nostra vita e quante volte lo siamo stati noi stessi?

domenica 14 gennaio 2024

 


Ciao a tutti, oggi vi parlo del romanzo “La destinazione” di Serena Penni edito da “Il ramo e la foglia edizioni”, un romanzo che mi ha colpito molto per le corde intime che riesce a toccare.

I protagonisti sono Carla, Paolo e Elizabeth, tutti e tre legati intimamente tra di loro da un quid che va oltre la mera presenza nella vita dell’altro.

Qui ciascuno di loro si racconta finalmente senza filtri, in un monologo accorato che è anche una disperata richiesta di aiuto.

Carla, compagna di Paolo, narra il suo rapporto d’amore malsano e disperato. Vittima di una dipendenza affettiva di cui è cosciente, non riesce a distaccarsene se non quando la sofferenza raggiunge il suo apice e la consapevolezza di non essere amata avrà conseguenze amare nella sua vita.

“La normalità, oggi, più che rassicurarmi, mi spaventa. Mi pare vacua, insipida. Però questa sono io, non posso farci nulla. Non sono portata per gli eccessi, per le stravaganze. Cerco di accettarmi così come sono, provo ad amarmi, ad apprezzare i miei nascondigli, le mie vie di fuga, i miei punti di ristoro interiore. Le mie tisane al finocchio e liquirizia, le letture notturne, le sciarpe calde e colorate. Con te era tutto speciale, tutto eccezionale, tutto sempre sopra le righe. Con te era tutto distorto, tutto malato. Anche se fatico ad ammetterlo, adesso che sono sola la mia sana normalità ha un sentore di mediocrità, vago eppure inconfondibile, inequivocabile. Dove sei? Ti cerco tra i fogli, tra i libri, nei cassetti, dietro lo specchio. Mi domando quanto ci metterà la mia anima a digerire la tua assenza.

 

Poi è Paolo a narrarsi e a mettersi a nudo. Segnato dalla morte della mamma per mano del padre quando aveva quattro anni e cresciuto dal nonno materno che non ha mai voluto parlargli della sua famiglia e in particolare della madre, cresce anafettivo e incapace di dedicarsi all’altro, di entrare nel suo mondo, perso com’è nei meandri del suo dolore che col tempo invece di essere incanalato in energie positive ha raggiunto livelli parossistici, inducendolo anche ad azioni autodistruttive.

L’unica luce in fondo al tunnel sembra essere Elizabeth, una donna infelicemente sposata, che incontra in un locale un giorno che è a pranzo da solo. Gli ricorda sua madre e con lei sembrerà instaurarsi un amore sincero ma i propri demoni non tarderanno a manifestarsi e la figura della madre distesa a terra in una pozza di sangue riprenderà ad ossessionarlo.

“Ma come spiegare tutto questo a mio nonno?Come fargli capire che quelli che lui chiama i miei sbalzi d’umore in realtà non sono altro che continui, logoranti ripensamenti, un inarrestabile, ineludibile tornare ancora e ancora sui miei passi?”

Ed infine è Elizabeth che prende la parola, racconta se stessa come non ha mai fatto con nessuno, confessa di sentire la mancanza di Paolo, ma in una lunga riflessione su se stessa, è conscia che i loro demoni non possono calmarsi con il loro amore ma sono destinati a portare loro incomprensioni e abissale tormento.

Mi manchi, Paolo. [...] Ti ho cacciato, sei sparito e la mia vita è tornata a essere quella di prima.[...Mi dispiace non averti capito e non averti saputo aiutare. All’inizio era tutto perfetto, poi, giorno dopo giorno, ti ho visto staccarti dalla realtà, perdere il lume della ragione. Sono rimasta a guardare, spettatrice  impotente, e sorpresa infine sono scappata.”

Questo è un romanzo intimistico che con una maestria davvero lodevole nel sondare l’animo umano, Serena Penni ci restituisce per farci analizzare il nostro attraverso le vicende dei protagonisti.

Lo stile scorrevole e delicato ci permette di immergerci e perderci nelle profondità dei personaggi; personaggi che si mostrano in tutta la loro solitudine e sembrano quasi senza pelle.

Tre identità che come monadi, hanno fatto la loro apparizione nella vità dell’altro senza purtroppo riuscire a toccarne l’essenza e poter portare così pace interiore.

Sono narrati tre dolori vissuti in totale isolamento psicologico e per questo ancora più laceranti, perchè non sempre si trova salvezza solo facendo affidamento su se stessi, ma in quanto animali sociali, siamo assetati di trovare conforto nel prossimo.

Serena Penni con quest’opera ci permette di riflettere sulle interazioni umane diventate molto più complesse in questi ultimi tempi in cui accogliere l’altro è considerato più che altro una debolezza e una perdita di tempo; dove il solipsismo è diventanto uno stile di vita e dove di conseguenza i rapporti umani di solito sono attraversati da un costante senso di inquietudine e angoscia.


giovedì 28 dicembre 2023

 




Ciao a tutti, oggi vi presento il romanzo “Marcel ritrovato” di Giuliano Gramigna edito in una nuova edizione da “Il ramo e la foglia edizioni”. Giuliano Gramigna è stato un critico letterario, scrittore e poeta, pubblicò questo romanzo nel 1969, un romanzo che è definito la sua opera più bella e per la quale vinse il Premio Selezione Campiello e il Premio Campione d’Italia.

Il protagonista è Bruno, un personaggio molto complicato, affetto da nevrosi che lo rendono schivo e sfuggente mentre  si muove in una Milano degli anni ’60. È un pubblicitario che in passato ha pubblicato un romanzo “Un matrimonio sbagliato”, il quale ha suscitato interesse nella critica ma ha avuto un mediocre successo tra il pubblico.

Giuliano Gramigna così lo presenta ai lettori nell’incipit del romanzo:

Rientrare a Milano e fare il morto, almeno per un pò di tempo. A Bruno piaceva poco viaggiare, specialmente per lavoro, e si staccava con fatica dalla sua città come del resto da ogni abitudine; ma un lungo viaggio era a sua volta una nuova abitudine, per uscire. Eterno traumatizzato![...]Rinchiuso in casa come l’appena dimesso dal carcere, agorafobo, era rimasto per un paio di giorni senza far sapere a nessuno del suo ritorno,[...]"

Viene delineato così nell’arco di poche righe un personaggio che subisce il mondo, rinchiuso in ricordi sofferenti che rendono la sua vita un trascinarsi doloroso. Poche sono le persone che frequenta abitualmente: sua sorella “La Gianna”, Franco, un amico di vecchia data, Laura, una donna con cui ha una relazione prettamente fisica con un finto reciproco coinvolgimento sentimentale; ogni tanto poi si costringe a frequentare alcuni amici della sorella, annoiati borghesi che banalizzano qualsiasi argomento e che vivono con straordinaria ottusità la superficie della vita credendo di attingere invece dalle sue profondità.

Il suo pensiero cade spesso dolorosamente, come una ferita ancora suppurante, su Roberta, il suo vero e perso amore di gioventù, amore a cui si ispira lo stesso suo romanzo e che rimane sopito, contribuendo a covare il suo senso di fallimento insieme alla sofferenza acuita dalla scarsa stima che aveva suo padre (da poco defunto e con cui ha vissuto i suoi ultimi anni) verso le sue velleità letterarie; disistima confermata dalla scoperta da parte di Bruno di una sua nota tra le carte che una sera gli mostra sua sorella per mettere ordine tra gli  effetti personali del genitore.

La vita di Bruno però prende una piega diversa quando un giorno da Roberta riceve una richiesta particolare: andare a Parigi per ritrovare suo marito Marcello che è scomparso proprio dopo aver annunciato un viaggio d’affari nella capitale francese.

Marcello, è un altro personaggio chiave nella vita di Bruno, è colui che ha usurpato il suo posto, l’uomo che lui avrebbe dovuto essere per poter rimanere nella vita di Roberta.

La richiesta non fa altro che peggiorare la sua nevrosi ma alla fine dopo un sofferente dibattito interiore  si recherà a Parigi, dove insieme alla ricerca del suo vecchio amico-rivale  rivivrà con memoria proustiana il suo passato  e farà incontri catartici.

Devo ammettere che dopo aver letto questo romanzo, ci ho messo un pò per scrivere questa recensione perchè se da un lato ero intimorita dalla levatura dello scrittore, dall’altro avvertivo che avevo bisogno di più tempo rispetto al solito per far “decantare” l’effetto che l’opera aveva avuto su di me.

 È stato un romanzo non di facile lettura ma allo stesso tempo mi sono lasciata incantare dall’abilità dello scrittore nel destreggiarsi come un prestigiatore con i suoi esperimenti stilistici.  La terza persona che ex abrupto diventava una prima persona, all’inizio mi aveva disorientata ma poi è stato piacevole perdersi in questo cambio di prospettiva, nel personaggio che diventava esso stesso il Narratore, ma il Narratore chi? Il Gramigna o il Bruno stesso, oppure l’uno si trasformava nell’altro in una sorta di compenetrazione di corpi che si autoanalizzano e si immergono nella reciproca vita interiore come nell’illusione ottica del rispecchiarsi infinito di due specchi?

Questo è un libro che consiglio a tutti soprattutto a chi è desideroso di conoscere meglio un pezzo di Letteratura italiana a cui quest’opera si aggiunge preziosamente, mostrando quanto ricco di sperimentazioni sia stato il post-modernismo.

sabato 4 novembre 2023

 




Ciao a tutti,

oggi voglio presentarvi un saggio “Maschere e figure” di Paolo Ruffilli edito da “Il ramo e la foglia edizioni”. Un saggio che ho trovato godibilissimo e molto scorrevole.

Ve lo introduco con le stesse parole dell’autore, nell’interessante prologo dell’opera:

La letteratura, ispirandosi alla realtà della vita degli uomini, ha creato nel tempo una galleria di “tipi”: modelli esemplari, archetipi, ai quali sono riconducibili, nelle loro molteplici sfumature, tutti i personaggi degli infiniti racconti venuti alla luce del mondo. I tipi sono l’evoluzione di quelle “maschere” che rappresentano una condizione in qualche modo primitiva, alle origini dell’avventura letteraria e a sviluppo di quello che all’inizio era l’impiego teatrale per l’individuazione schematica di dati caratteriali e fisici. Le maschere come travestimento del volto, in legno o altro materiale, amplificavano e sottolineavano deformandoli i lineamenti di ogni personaggio. Nel loro graduale trasferirsi dal concreto all’astratto delle parole, hanno conservato il riscontro simbolico dell’uso che se ne faceva sulla scena”.

 

Un percorso, quello delle figure che via via ha toccato e fortemente influenzato ogni ambito dell’arte, passando dal teatro alla letteratura e più vicino a noi fino al cinema, dopo essere stato contaminato a sua volta dall’emergere della psicanalisi che ne ha dato una chiara funzione simbolica, perché per il pubblico è significativo identificarsi nei vari personaggi, e attingere in maniera catartica da ogni loro aspetto positivo o negativo che sia, per soddisfare un bisogno inconscio di far pace con le conflittualità che ciascuno di noi ha dentro di sé.

Col passare del tempo la gestione dei personaggi è diventata più complessa, perché ognuno di loro racchiude aspetti negativi e positivi insieme, che non è possibile separare se non mutilandoli della loro essenza, contrariamente al passato in cui perseguendo un chiaro intento didascalico, la distinzione tra Bene e Male era netta.

Queste figure continuano a essere presenti nella letteratura moderna anche senza che né l’autore né i lettori ne siano consapevoli, tanta è la loro forza primigenia.

Paolo Ruffilli ci guida in un interessante excursus  della letteratura fino all’inizio del Novecento, dedicando un capitolo per ciascun tipo:”il pigro”, “il libertino”, “l’ipocrita”, “l’ingenuo”, “il bello”, “la donna fatale”, “il malvagio”, “il vanitoso”, “l’androgino” (e ci tiene a sottolineare che sebbene “la donna fatale” e “l’androgino” sembrino moderni, in realtà essi attingono la loro natura da significati simbolici antichi).

L’analisi delle figure è condotta con molta maestria e padronanza, ciascuna di loro è analizzata all’interno di opere che molti di noi hanno sicuramente letto, ma mai da un punto di vista così interessante, riuscendo a trovare similarità senza alcuna forzatura, tra personaggi di autori distanti non solo nel tempo, ma anche geograficamente .

Il lettore riesce così anche a trovare il filo conduttore che unisce le prime rappresentazioni con maschere fisiche a personaggi per esempio come Madame Bovary, Anna Karenina o Giacomo Casanova.

Un’analisi che secondo me, aggiunge un tassello importante alla comprensione del vasto e complesso mondo della letteratura mondiale, mostrando come simboli del passato siano riusciti col tempo ad entrare a far parte del nostro “dna collettivo” e ad assumere col passare del tempo sempre forme consone al periodo storico del momento.

Questo è un saggio che dà il suo valore aggiunto mettendo in risalto  le opere che analizza da un punto di vista singolare e come “effetto collaterale” invoglia il lettore a leggerle o rileggerle in maniera più consapevole.


martedì 15 agosto 2023

Le figure retoriche rappresentano per me un argomento che mi ha sempre affascinato, legate indissolubilmente all’arte oratoria e con essa a tutto il mondo della dialettica.

Quello che mi interessa fare con questa rubrica è percorrere insieme a voi questo affascinante mondo, partendo dalle loro origini, assaporandone la loro varietà e l’uso che ne venne e viene ancora fatto nella letteratura ma anche nel linguaggio comune, perchè, ebbene sì, noi le usiamo quotidianamente senza averne alcuna consapevolezza e a ciò si aggiunge che lo facciamo anche con una frequenza davvero molto alta!

Narrare le origini delle figure retoriche equivale a narrare le origini della retorica; perciò iniziamo questo fantastico viaggio!

Secondo Aristotele il padre della retorica fu Empedocle, ma la tradizione vuole che nasca nella metà del V sec. a.C. a Siracusa,  quando dopo che il tiranno Trasibulo venne fatto cadere, con il ritorno ad uno stato democratico, ci fu un tripudio di processi  riguardanti proprietà private finite nelle mani dei tiranni, processi davanti a giurie popolari che richiedevano capacità notevoli nell’eloquio, in cui si distinse Corace, compagno/maestro di Tisia e autore della prima Arte retorica dell'antichità.

La retorica poi passò nell’Attica dove si sviluppò e fiorì grazie a Gorgia, uno dei maggiori sofisti, il teorizzatore del relativismo etico basandosi sulla morale della situazione contingente.

Platone in uno dei suoi dialoghi, che porta proprio il nome del noto sofista, gli fa dire che la retorica è l’arte della parola e Socrate di rimando sostiene che la retorica è l’arte della persuasione, una persuasione il cui scopo è far credere non “che insegni sul giusto e sull’ingiusto”. Socrate quindi sottolinea il ruolo fondamentale della retorica cioè la capacità di servirsi della parola per suggestionare con il suo potere emotivo e persuadere un uditorio per ottenerne il consenso.

La retorica per far tutto ciò deve basarsi su regole  ben precise che nel tempo si trasformano in una vera e propria robusta infrastruttura usata per secoli dagli oratori. Aristotele crea una teoria dell’argomentazione basata su un particolare ragionamento, l’entimema, una sorta di sillogismo approssimativo creato per il pubblico che parte da premesse verosimili e plausibili. La seduzione della parola, la captatio benevolentiae, in una sola espressione l’arte della parola è utile per dare maggiore verosimiglianza al ragionamento e indurre l’interlocutore all’assenso.

Secondo la tradizione greco-latina la retorica consta di cinque parti:

1. Inventio o èuresis: trovare l’argomento;

2. Dispositio o tàxis: mettere in ordine ciò che si è trovato;

3. Elocutio o léxis: esporre il discorso con ornamenti;

4. Actio o ipòcrisis: recitare il discorso con gesti e dizione appropriati;

5. Memoria o mneme: mandare a memoria il discorso;

L’inventio ha come scopo la ricerca delle prove, delle vie di persuasione. Grande supporto per l’inventio è la topica, cioè l’insieme dei luoghi comuni.

La dispositio si avvale delle quattro parti del discorso retorico: si esordisce con la captatio benevolentiae per allettare il pubblico; la narratio cioè il racconto dei fatti che può seguire l’ordine naturale oppure partire non dall’inizio ma in medias res; la confirmatio ovvero il resoconto degli argomenti; infine l’epilogo ossia la conclusione del discorso con l’appello ai sentimenti dell’uditorio.

L’elocutio riguarda il linguaggio, la scelta delle figure con cui si orna il discorso, parte che via via con il passare dei secoli si è svincolata dalla retorica per assumere un ruolo indipendente e privilegiato, arrivando ad un punto di convergenza con la poesia e la letteratura.

Infine la memoria e l’actio, meno importanti del resto, hanno a che fare con l’esecuzione del discorso con l’assunzione anche di modi  teatrali per mantenere legato il pubblico.

 

Col passare dei secoli la teoria della retorica si svilupperà fino a raggiungere livelli molto alti e all’interno di essa in particolare l’elocutio, che con il suo proliferare di figure retoriche, della ricerca dello stile suggestivo, della bella parola insomma, accentuerà il processo di letteraturizzazione e avrà il suo culmine nel Medioevo, quando la retorica servirà di guida alla prosa, e alla poetica con la versificazione.

Nella retorica moderna, con Perelman, un filosofo polacco, si riprende il concetto aristotelico dell’argomentazione, di cui è stato il maggior teorico, che contrappone  al ragionamento formale, diventato nell’età contemporanea il più diffuso e considerato come modello unico, ma per Perelman pieno di difetti perché atemporale, impersonale, e soprattutto completamente dissociato dalle componenti psicologiche, sociologiche e storiche della conoscenza.

Accanto al recupero dell’arte argomentativa, possiamo porre le ricerche linguistiche e stilistiche dei formalisti russi, dei semiologi francesi e di alcuni studiosi italiani (tra cui Umberto Eco).

A tutto ciò va aggiunto Jakobson, uno dei più importanti linguisti russi che considera la metafora e la metonimia (figure retoriche che faranno parte ovviamente del nostro excursus) come collegamenti tra la retorica e la linguistica; e per finire Jacques Lacan, che è stato il primo analista a legare la psicanalisi al linguaggio, analizzando il linguaggio onirico; suo il celebre aforisma “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”.

Il nostro viaggio per oggi finisce qui, con questa panoramica a volo d’uccello. Lo riprenderemo a breve per addentrarci meglio in questo fantastico mondo.

A presto!

domenica 14 maggio 2023

 


Ciao a tutti,

oggi vi presento un altro romanzo edito dalla casa editrice “Il ramo e la foglia edizioni”: “Anche se fosse vero” di Davide Antonio Pio.

Non vi nascondo che è stato il libro più strano e in certi tratti complesso che mi sia trovata a leggere, ma non per questo meno interessante, anzi, la sua struttura e il suo evolversi hanno stuzzicato la mia curiosità, tanto che senza fatica ho terminato le quasi 150 pagine di cui è composto il romanzo.

In quest’opera divisa in cinque parti, cullati dal rumore delle acque del lido di Venezia, si dipanano le vite di diversi personaggi, alcuni seguiti dall’autore per poche pagine e in un arco di tempo molto breve, altri invece affiancati per quasi la loro intera vita.

Tutti i personaggi sono in qualche modo legati tra di loro, ma il legame e ciò che si nasconde tra le righe sta al lettore ricostruirlo, l’autore non facilita in alcun modo chi legge, solleticando la sua fantasia e creatività.

Il tutto è raccontato così come si mostra un quadro o si guarda un panorama: senza giudizio o sentimentalismi; è il lettore che deve farsi un’idea e provare trasporto per le vicende dei personaggi in base alla ricostruzione che lui stesso si è fatta dentro di sé.

Ogni tanto l’autore si abbandona a qualche veloce disquisizione filosofica, buttata velocemente quasi ad indicare una direzione, come una sorta di guida nel susseguirsi degli anni narrati in cui i personaggi vivono, si innamorano, e in cui morti violente o incidenti si avvicendano a nascite e amori; il tutto senza mai entrare nei dettagli, ma lasciando aleggiare sempre una patina di non detto ma immaginabile.  

Il vero protagonista del romanzo sembra essere la Vita, che si svolge nella sua semplicità quasi banale, e che con le sue fila talvolta sottili e trasparenti, altre volte più tenaci e spesse, lega tra di loro individui, intrecciandone senza che loro stessi ne siano consapevoli i loro destini.

Ecco a voi un estratto dalla pagina iniziale:

Potessimo, in quell’età macchinosa in cui ciascuno si chiede trecento volte al giorno trovando solo risposte angoscianti: <<perché qui?Perché in questa forma?Perché niente di ciò che sembra così spalancato agli altri risponde al mio richiamo?Perché di mille leggi che il mio corpo segue spontaneamente non si trova traccia nei corpi che mi attraggono?...>> dico... potessimo in quell’età, avere ali come il santo fatto Leone che qui spadroneggia e raggiungere come calamitati il punto della storia di ciascuno in cui le cose cambiano, il tratto del fiume in cui la corrente accompagna anzichè travolgere.”

Sta a voi, ora continuare nella lettura e avere voglia di fare un interessante viaggio nei meandri di questo puzzle.


domenica 26 marzo 2023

 


Uscii dal mio nascondiglio soltanto quando fui certo che gli alianti se ne fossero andati. Le loro grandi ombre avevano cessato di danzare silenziose sulla sabbia, tremolando come luci nell’acqua ogniqualvolta incontravano dei rottami affioranti dalla pelle granulosa del deserto; e fu allora, sgattaiolato fuori dall’anfratto in cui avevo trovato rifugio-non era poi altro che l’abitacolo rugginoso d’una vecchia automobile rovesciata-che riconobbi un complice sorriso nelle larghe cromature ossidate, di quello e dai tanti veicoli ammassati all’intorno. Mentalmente li ringraziai. Dopo giorni e giorni vissuti da braccato, avevo bisogno di un po' di cordialità, anche solo quella metallica di qualche centinaio di auto abbandonate.”

Questo è l’incipit di “Navi nel deserto”, romanzo d’esordio di Luigi Weber, Professore Associato presso il Dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell’Università di Bologna.

Già da queste poche righe si può intuire il contesto in cui è ambientato il romanzo: l’ammasso di rottami d’auto in cui il personaggio trova riparo e l’accenno al deserto fanno presagire un’epoca post-apocalittica in cui il passato tecnologico defunto si combina con l’uso di fantomatici alianti utilizzati da chi sta braccando l’uomo.

A queste inquietanti premesse si aggiungeranno altre immagini affascinanti e anch’esse inquietanti, che rimandano al titolo dell’opera: navi con ruote che si muovono lungo piste nel deserto.

Il romanzo è quindi ambientato in un futuro molto lontano, si spera, in cui non ci sono più nè mari nè corsi d’acqua, dove impera nella sua maestosità crudele il deserto, tranne qualche Oasi o alcune “Rocche”, città fortificate costruite in alto su montagne.

Troviamo che invece si muovono come nomadi, degli uomini che hanno deciso di abbandonare le Rocche, e che coraggiosamente si sono imbarcati su queste gigantesche navi; a loro si aggiungerà una nave che si destreggia spietatamente nel deserto, alla ricerca di altre navi da saccheggiare, seminando morte per il solo gusto di procurare sofferenze atroci, la nave dei pirati capitanata da Schomberg.

Luigi Weber descrive in maniera accurata e cruda una società ipocrita, piena di preconcetti verso chi non si adegua a delle regole sancite in base ad una vuota apparenza, e ciò vale per tutti, marinai delle Navi, abitanti di Oasi e Rocche, ma il tutto molto più accentuato e descritto con straordinaria attenzione per questi ultimi che come le loro città vivono arroccati su un'asfissiante perbenismo.

In questa storia, seguiremo le vicende di un capitano giovanissimo, neofita della vita vagabonda delle navi, Joseph Conrad, designato tale dal suo predecessore, nonostante provenga da una Rocca, decisione che lascia contrariati i suoi sottoposti; poi incontreremo un altro capitano, Julian Sands, la cui vita si intreccerà con quella di Freya, una giovane fanciulla che conoscerà in una delle Oasi; ci verrà presentato un traditore che si muoverà in maniera astuta tra navi e Rocche; e infine seguiremo lo stesso pirata Schomberg, nelle sue perverse scorribande.

Durante la narrazione sentiremo il sapore amaro di antiche rimembranze, in cui la vita scorreva normalmente così come la conosciamo oggi e tutto ciò si mescolerà con il tentativo di alcuni personaggi di condurre una vita il più accettabile possibile, ma le loro vicende ad un certo punto si influenzeranno vicendevolmente in maniera tragica, anche se alcuni di loro non si conosceranno mai di persona, e tutto ciò dona un retrogusto amaro e per questo ancora più estremamente affascinante a tutta la storia.

Il romanzo alterna in maniera sapiente  il racconto diaristico in prima persona a quello del narratore onnisciente in terza persona, riuscendo a farci immedesimare nei tormenti, dubbi e riflessioni dei personaggi; ne esce un racconto  corale in cui ciascuno di loro risulta importante quanto gli altri e la loro intima essenza si mostra trasparente.

Questo romanzo ha la particolarità di essere un omaggio allo scrittore Joseph Conrad, infatti ogni personaggio ha il nome di personaggi tratti dai suoi romanzi, una scelta fatta dall’autore in onore di uno scrittore che come riferisce in una sua intervista, ha avuto un notevole impatto su di lui, cosicché il racconto delle lore vite in “Navi nel deserto” riporta alla memoria le vicende degli stessi personaggi nei romanzi di Conrad, in un afflato letterario molto suggestivo.

In “Navi nel deserto” non ci sono però solo echi di Conrad, ma anche di Melville, Philip Dick, Joseph Roth fino ad arrivare alle fiabe persiane e le tragedie greche, sapientemente uniti dalla sensibilità dell’autore che ha filtrato le sue esperienze letterarie mediante il suo vissuto, e attraverso una lunga gestazione, ha creato come risultato questo affascinante e originale romanzo in cui la fantascienza, lo stile post-apocalittico e quello del romanzo d’avventura si mixano in maniera coinvolgente senza mai eccedere con gli ingredienti.

Quest’opera contiene dentro di sè, tra i vari livelli di lettura, anche un’amara constatazione sull’umanità, che mi ha portato a riflettere sugli avvenimenti che sono accaduti in questi ultimi anni: nonostante gli eventi catastrofici che si intuisce si sono succeduti in maniera drammatica e che pur nel loro orrore avrebbero potuto avere l'unico pregio di servire da collante per non soccombere, si percepisce una  riflessione molto poco ottimista che ha l’autore del genere umano: il pregiudizio, l’ipocrisia e l’egoismo saranno sempre scogli insuperabili se non si riuscirà ad entrare empaticamente in comunione con il prossimo e lo si abbraccia nella sua diversità.