venerdì 9 dicembre 2022

 


Niente mi fa paura come il sesso. Se conosco qualcuno che mi piace, l’istinto a sedurlo si ferma proprio quando sembra che possa succedere qualcosa. Allora, lascio all’altro l’iniziativa, perchè mettersi nella condizione della vittima conferma la paura, ma almeno non mi rende più responsabile; oppure, lascio perdere, mi dico che mi sono sbagliato, non succederà niente, e scappo.”

Ecco qui l’incipit dell’ultimo romanzo pubblicato da Il ramo e la foglia edizioni, La vita nascosta” di Raffaele Donnarumma, professore universitario di Letteratura Italiana contemporanea all’Università di Pisa. Scrittore di saggi, con quest’opera è autore del suo primo romanzo.

Il protagonista è una sorta di alter ego dello scrittore, professore di Italiano e con un nome che inizia come il suo, R., ma come Donnarumma ci tiene a precisare in un’intervista rilasciata ultimamente, non è un’autobiografia ma più che altro una sorta di auto-fiction.

L’incipit ci porta ex-abrupto nel tormento interiore del personaggio, dilaniato dall’insicurezza e dal non riuscire a farsi mai coinvolgere sul serio dagli eventi della sua esistenza.

R. dopo una relazione durata una ventina d’anni, tradito ed avendo tradito a sua volta, si trova improvvisamente di fronte ai suoi demoni interiori e come in una sorta di diario sveviano si affida ad una rigida disamina dei suoi sentimenti e pensieri.

Per cercare di combattere questo malessere interiore, anche sostenuto dalla sua amica Anna, si iscrive in palestra, frequenta siti d’incontri e di entrambi fa una divertente ma anche sarcastica analisi.

“Il vitalismo delle palestre, come le loro luci, la musica a palla, i colori sparati sui muri, l’allegria sudata degli istruttori di fitness o di pilates, è l’apparato decorativo di un istinto rabbioso alla mortificazione di sé, la chiesa barocca di stucchi e marmi tramischi costruita sopra un ossario.”

In un sito d’incontri conosce un ragazzo, L., di almeno dieci anni più giovane di lui, con cui inizia una relazione clandestina perchè quest’ultimo già legato ad un’altra persona, ma nonostante tutto appagante, almeno all’inizio, anche se impostata in maniera diversa da quelle precedenti, un rapporto più passivo e sottomesso, dipendente dagli umori del suo nuovo compagno.

Ben presto però, la differenza d’età e il fatto che il ragazzo sia uno studente in procinto di un dottorato nella sua stessa Università, mentre lui, un professore affermato, fanno cambiare gli equilibri di questo rapporto e senza che se ne renda conto ma via via sempre più consapevole, le distanze crescono sia nell’esternazione dei sentimenti sia dentro di lui che paradossalmente si scopre invischiato in un rapporto non confinato più solo al sesso ma in un vero e proprio innamoramento.

Qui le pagine del romanzo si fanno più sofferte, e tutta l’angoscia del personaggio comincia ad affiorare prepontemente nella contraddizione tra le sue riflessioni di un amore monco, privo di una vitalità necessaria a tenerlo in piedi e le sue azioni, che lo inducono a ergersi a salvatore di un compagno che si lascia trascinare dalla vita e che subisce il sentimento di R. piuttosto che lasciarsi coinvolgere, rendendo R. sempre più dipendente da questo amore apatico fino alla decisione finale a cui il protagonista decide di affidarsi per salvarsi.

Questo romanzo, è un’autentica chicca da leggere per prendere consapevolezza della nostra vita, quella nascosta fra i significati dei nostri atti, esternazioni a volte di zone del nostro inconscio buie e dolorose, e qui il personaggio lo fa attraverso le parole di Donnarumma che usa uno stile fortemente introspettivo e scorrevole, in cui ogni parola porta con sè un carico di significato che trascende quello semantico e induce in noi una catarsi che solo le migliori opere riescono a fare.


domenica 16 ottobre 2022

 


Ciao a tutti, oggi vi presento un altro romanzo edito da “Il ramo e la foglia edizioni”, “L’età della rovina” il romanzo d’esordio di Francesco Tronci.

Il romanzo è ambientato in un periodo di apparente grande fermento politico, in una società dove è in fibrillazione, sempre in maniera apparente, la voglia di cambiamenti e riforme, e in cui i cittadini credono di poter essere artefici del proprio destino come di quello del Paese.

I principi fondamentali dell’età della rovina, una nuova costituzione non scritta e senza autori diretti, venivano ripetuti ossessivamente dai rappresentanti del potere politico a ogni buona occasione, intervista, dichiarazione sui giornali, comizio in piazza o conferenza. Non sembravano parole vestite dal conforto tiepido di una riflessione profonda, ma accrocchi di sillabe che pretendevano di stabilire in che direzione la società avrebbe dovuto muoversi, ora che si navigava da anni in questa nuova età che nessuno aveva mai chiamato età della rovina. Declamavano il valore nobile dell’iniziativa individuale e della creatività contro il pessimismo e la mancanza di inventiva.”

 Seguiamo le vicende contorte, le meschinità politiche attraverso la vita di colui che nel romanzo non avrà mai un nome ma sarà sempre definito dal ruolo che gli è stato affibbiato dalle circostanze: “l’aspirante”; e un nome non l’avrà nessuno dei personaggi che si avvicenderanno sul palcoscenico della narrazione. Ecco, perchè sì, il romanzo sembra una rappresentazione teatrale, che ha in sè qualcosa di tragico e allo stesso tempo grottesco, dove le parole vengono contaminate dallo squallore intimo dei personaggi che attorniano l’aspirante e il loro significato piegato e lordato ad uso e consumo dei vari attori della scena.

Seguiremo le vicende dell’aspirante, che in quanto tale aspira semplicemente ad un lavoro dopo essersi laureato, ma che colleziona solo una serie di stage con belle promesse, intervallati da periodi di speranza angosciosa. Durante il racconto delle sue vicende, verremo resi partecipi anche delle ansie e preoccupazioni dei genitori stessi del protagonista: costretti a vivere e a cambiare in continuazione case in affitto senza riscaldamento, perchè perseguitati da creditori e padroni di casa incuranti del loro stato di quasi indigenza, conducono la loro grama vita richiedendo in continuazione finanziamenti per pagare i loro debiti.

L’aspirante impossibilitato a crearsi un suo posto nella società, vive insieme ai genitori e si arrabatta per non lasciarsi schiacciare dagli eventi mentre la madre contribuisce facendo da badante notturna senza possibilità di ferie o malattie.

Mentre i personaggi principali si trascinano alla bell’e meglio, nel panorama politico si  confrontano i due partiti principali, Il Partito del Progresso e il Partito della sicurezza; è tutto un susseguirsi di accesi dibattiti televisivi, pieni di promesse di liberazione dalla schiavitù economica e dall’insicurezza sociale dilagante.

La popolazione prende posizione, urla nelle piazze, illusa di poter avere un ruolo attivo; ma quelli che non hanno diritto nemmeno a sollevare la testa e a dare fiato alle loro richieste sono proprio i poveri, guardati con disgusto da tutti, perchè essere poveri è una colpa, un peccato capitale che rende indegni della stessa vita.

L’aspirante aveva appreso col tempo, senza necessità di particolari istruzioni, che le sue lamentele andavano espresse con moderazione, giacché le lamentele dei poveri hanno un insolito 13 potere disturbante. Nell’età della rovina nessuno aveva mai prestato attenzione a un’elementare evidenza: gli unici a lamentarsi, e a lamentarsi della propria condizione con notevole disinvoltura, non erano gli ultimi della coda, ma tutti gli altri, senza imbarazzo. La loro doglianza reclamava modernizzazione, «diritto al futuro!» gridavano, l’età della rovina apprezzava la pretesa di futuro, l’attitudine propositiva e l’intuizione creativa, queste erano le sole doglianze feconde. Invece le parole degli ultimi suonavano stordenti, tessere di una voce senza futuro che, a chiedersi come sarebbe stato domani, era già sfibrata. Così i poveri, per non risultare inopportuni, si davano una regolata.”

Francesco Tronci ci mostra lo spaccato di una società irrimediabilmente corrotta, nemmeno lontanamente conscia di essere stata intaccata  da un grande male, quello del cinismo che induce al calcolo e alla mancanza di empatia, in definitiva “un’età della rovina” che prima o poi imploderà. Lo scrittore con uno stile scorrevole e con una grande attenzione dedicata all’aspetto sociologico e ai risvolti filosofici delle vicende, ci guida verso una profonda riflessione sulla nostra stessa società, così simile a quella del romanzo e a prendere le distanze da certi meccanismi malsani di cui potremmo essere vittime o paradossalmente carnefici noi stessi.


mercoledì 17 agosto 2022

 

Salve a tutti,

vi aggiorno su una nuova rubrica che entrerà a far parte a breve del mio blog: le figure retoriche, le loro origini, il loro uso; insomma tutto ciò che le può riguardare anche solo lontanamente. Le figure retoriche mi hanno da sempre affascinato e molto spesso mi è capitato di leggere più volte una stessa frase di un libro ammaliata dal presentarsi di una di loro.

Non so con quale cadenza però, perchè i miei impegni sono molto spesso un ostacolo al mio desiderio di far crescere questo blog, che ultimamente si è limitato ad essere una serie di recensioni di libri, una cosa che adoro fare, beninteso, ma vorrei che il mio blog fosse qualcosa di più. Vorrei anche dedicarmi di più alle altre rubriche che ho trascurato in questi anni e farmi venire delle idee sulla creazione di altre (qualcosa bolle in pentola, ehm, ecco  qua una figura retorica , ma non è ancora niente di definito).

A presto allora!

 

domenica 31 luglio 2022

 


Ciao a tutti, oggi voglio presentarvi un libro molto particolare, una raccolta di racconti dal titolo “Codice a sbarre” e sottotitolo “Storie di assenti e di simbionti in cattività”, l’opera di esordio di una giovane scrittrice che è anche attrice, Giulia Tubili.

Il titolo mi ha colpito sin da subito, come anche l’emblematica immagine di copertina: il profilo di una persona e del filo spinato che sembra attraversarle il capo.

Tutto questo mi ha incuriosito e mi sono buttata a capofitto nella lettura dei racconti.

Ebbene, mi sono resa conto che mai nessun titolo e immagine sono stati più azzeccati, perchè mi sono trovata catapultata in un mondo asfissiante e atmosfere cupe in cui i vari personaggi agiscono, o pensano di agire, rimanendo invischiati nei loro pensieri o nei loro atti.

Alcune storie sono effettivamente ambientate in carceri, ma ciò che le accomuna tutte, è la sensazione di reclusione in cui vivono i vari protagonisti a prescindere dalla situazione che si trovano a vivere.

Ogni personaggio sembra vittima delle proprie azioni e delle tormentate elucubrazioni mentali a cui sottopone se stesso.

Le sbarre quindi, che siano effettive o meno, sono quelle di cui si circondano i protagonisti segnando una netta separazione dal mondo che li circonda.

La particolarità di quest’opera è che non c’è mai una premessa per introdurre il lettore a ciò che sta per leggere: in ogni storia ci si trova sempre già “in medias res”, ciò che sta per succedere o il personaggio e la sua situazione diventano più chiari man mano che si procede con la lettura; insomma il lettore si trova lanciato a capofitto già in un particolare momento che culminerà sempre in un gesto o in una spiegazione che sveleranno la situazione lasciandolo quasi stordito e senza fiato per lo stupore.

Lo stile di Giulia Turbili non è molto scorrevole, c’è una certa tortuosità nelle frasi e le storie sono piene di immagini che si susseguono in maniera fitta; però anche se all’inizio tutto ciò mi ha reso un pò difficoltosa le lettura, man mano l’ho apprezzato e l’ho trovato congeniale allo svilupparsi dei racconti, volti ad essere resi ancora più cupi da atmosfere che sono un mix tra il giallo il noir e il thriller; alcune scene splatters possono sembrare disturbanti ma il tutto è funzionale a toccare quasi con mano il senso di alienazione dei personaggi che consci o meno delle conseguenze delle loro azioni e pensieri, si autorecludono in una prigione senza alcuna speranza e via d’uscita.

L’autrice ha sviscerato sin nel profondo la psiche umana traendone il torbido e il marcio che molto probabilmente alberga in ciascuno di noi; in queste storie il lettore troverà impostori, condannati a morte, assassini, insomma il peggio dell’umanità.

Una lettura che consiglio a chiunque voglia immergersi nella lettura di un’opera che potrebbe rivelarsi anche una sorta di autoanalisi, che sicuramente  avrà un forte impatto emotivo in chiunque avrà voglia di cimentarsi in questo viaggio “nel sottosuolo”.

 

 

 

lunedì 25 aprile 2022


Ero io che mi aspettavo qualcosa di eroico da me stessa. Ero io che mi sentivo da sempre votata alle grandi azioni degli uomini e non alle meschine cure domestiche a cui la storia aveva condannato il mio sesso. Fin da bambina mi ero appassionata alle avventure dei cavalieri e avevo maledetto la sorte che mi aveva fatto donna, assegnandomi un ruolo di secondo piano a cui mi era difficile adattarmi. Occuparmi della casa non era quello per cui mi sentivo chiamata e vivere all’ombra di un uomo non faceva per me. Avevo più fegato di molti uomini che avevo conosciuto.
È così che si descrive la protagonista del romanzo “Memorie di un’avventuriera” di Emanuela Monti, nuova uscita della casa editrice “Il ramo e la foglia edizioni”. Prima donna a diventare commediografa nell’Inghilterra del XVII secolo, Aphra Behn non è purtroppo molto conosciuta attualmente nel panorama letterario, ma devo dire che la sua è stata sicuramente una vita straordinaria e fuori dagli schemi, e per certi versi lo sarebbe anche ora. 
Aphra Behn nata nella contea di Kent nel 1640 e morta a Londra nel 1689, era figlia di un barbiere e sin da bambina amava scrivere versi e teneva un diario. La mamma non vedeva di buon occhio queste fantasie, invece il padre ne era orgoglioso e la supportò sempre. Durante la sua giovinezza frequentò la nobiltà e l’alta borghesia, e quando il padre venne nominato “Luogotenente Generale del Surinam”, si trasferì con la sua famiglia nelle Indie Occidentali; ma il padre morì durante il viaggio e a partire da questa perdita la vita di Aphra si fece molto complicata soprattutto quando tornò in patria. 
Divenne addirittura una spia per conto di Carlo II e dovette arrabattarsi per sostenersi economicamente in un’Inghilterra che attraversava uno dei momenti più difficili della sua storia: la decapitazione di Carlo I e la conseguente salita al potere di Cromwell e dei puritani e il suo successivo crollo con il ritorno degli Stuart. Le accadde anche di finire in carcere perchè incapace di pagare i suoi debiti e spesso dovette concedere il suo corpo pur di racimolare qualche soldo.
Provavo una sensazione elettrizzante al pensiero di avere l’arbitrio assoluto della mia vita. Non avevo né padre né marito né fratelli in età tale da potermi imporre la loro volontà o a cui dovessi rendere conto. E quella condizione di libertà avrei voluto conservarla per sempre. Ma questo sarebbe stato possibile soltanto se avessi trovato il modo di guadagnarmi da vivere. E nella Londra di quei giorni era un’impresa ancora più disperata del solito: la peste si stava diffondendo con allarmante rapidità.
In questa vita difficile Aphra non si perse mai d’animo; il suo spirito indipendente e libero non l’abbandonò mai e nonostante vivesse spesso nelle ristrettezze riuscì a trovare il tempo per dedicarsi a ciò che amava tanto: la commedia. Divenne una fervida commediografa e alternava questo lavoro con quello di copiatura di testi. Divenne molto famosa e apprezzata ma allo stesso tempo la società inglese mal digeriva la sua vita libera e anticonformista. 
Anche una drammaturga è una donna pubblica. E infatti non è troppo diversa la considerazione che si ha di me e non a caso la critica principale che mi viene mossa è quella di essere sconcia.
Emanuela Monti ci descrive con affetto questa donna incredibile in un romanzo in cui l’alternarsi dello stile epistolare e quello del memoir narrato in prima persona dalla protagonista rendono più vivida e palpabile la sua persona; e anche se, ci sono lacune che nella sua accurata ricerca non è riuscita a coprire, l’autrice ha deciso di colmarle appellandosi al principio di verosimiglianza e sempre nel rispetto della commediografa inglese. 
Dalla lettura di questo romanzo si esce arricchiti: la vita di Aphra Behn la si può considerare la vita coraggiosa di una donna che non si arrese mai di fronte al disprezzo di una società che concepiva la donna come un oggetto privo di una propria identità, che dovesse essere dedita solo a vivere dentro le mura di una casa e a dare discendenza. Ebbene, una donna come Aphra, che decise di non farsi mai schiacciare dal maschilismo dilagante anche tra le stesse donne, e che pagò a caro prezzo la sua indipendenza, merita un inchino da parte di tutti noi e come scrisse Virginia Woolf :
“E tutte le donne insieme dovrebbero cospargere di fiori la tomba di Aphra Behn…perché fu lei a guadagnarci il diritto di pensare ciò che ci pare…”

domenica 27 marzo 2022





Ciao a tutti, oggi vi presento “La mafia nello zaino” di Alessandro Cortese edito da “Il ramo e la foglia edizioni”.

Il libro colpisce subito dalla copertina: un bimbo con indosso uno zaino mentre “guarda” una sorta di rappresentazione teatrale, ma tutto ciò stride con gli schizzi di sangue sul muro e sulla tenda e un senso di sottile disagio si insinua già nel lettore.

 

A me, che di curiosità ne avevo in abbondanza, la Sicilia avrebbe dato modo di vivere una storia lunga e paurosa, tutta fatta di misteri, leggende e morti ammazzati.

La mia favola d’estate, per lo più vissuta sotto il sole d’agosto, aveva avuto come protagonisti me, mia mamma, un nano e un assassino, insieme a un sacco di comparse, com’era tradizione dell’Opera dei Pupi, e tra le comparse, che ci si creda o no, c’era stato persino l’uomo nero.

Ora la racconto perchè le storie, prima o poi, come l’aria risalgono più su, a galla fino a farsi vive. Per farsi ricordare.

 

Questa è una storia ambientata in un paesino imprecisato della Sicilia ed è narrata in prima persona dal protagonista ad anni di distanza degli eventi avvenuti, ma per meglio immergersi nel racconto, torna ad essere un bambino alle prese con qualcosa di terribile e più grande di lui.

Il primo incontro con la Mafia lo fa venendo a conoscenza dell’uccisione di un ragazzo, a cui sono state mozzate le mani, reo di aver rubato nella casa sbagliata.

Quest’omicidio lo turba profondamente, comincia a scardinarsi l’innocenza della sua infanzia; in  bicicletta va a destra e a manca per il paese in cerca di informazioni, si dimena per poter dare a ciò che è avvenuto un senso logico, ma è tutto un movimento che genera altra confusione, paura e lo fa sprofondare ancora di più nell’agghiacciante atmosfera mafiosa.

 

“E la mafia?L’hai vista?”

Mossi il capo e feci di no.

“E sai perchè non hai visto la mafia?”.

Di nuovo lo guardai e di nuovo feci di no, spalancando un poco la bocca come quand’ero piccolo e lui m’imboccava.

“Perché la mafia è come Colapesce.  È una leggenda che si sono inventati alla televisione, per raccontare qualcosa ai vecchi che non lavorano più e restano a casa tutto il giorno. I vecchi guardano i telegiornali, che gli raccontano qualcosa vera e qualcosa no. La mafia non è vera”.

 

Mentre gli omicidi si susseguono, il dubbio e il terrore si fanno sempre più pressanti quando il protagonista si rende conto che la Mafia con i suoi tentacoli è giunta fin dentro le mura di casa, celata dietro i mutamenti d’umore del padre e le sue frequenti riunioni tra “amici” e gli occhi tristi della madre.

Prenderà ad un certo punto la coraggiosa decisione di scoprire da solo cosa è la Mafia e gli eventi precipiteranno così velocemente che da un giorno all’altro perderà l’innocenza e la spensieratezza dell’infanzia e si trasformerà, costretto dalle circostanze, in un piccolo adulto che ha già visto troppe brutture nella sua breve vita.

Eventi terribili raccontati  con la genuinità e lo stupore di un bambino rendono ancora più agghiaccianti  gli orrori della Mafia.

Il protagonista si trova immerso non solo in vicende di morti ammazzati ma anche in una società dove vige come regola di vita fondamentale, l’omertà,  che intorpidisce le coscienze e sgretola la dignità della gente; ma per fortuna lui non sarà da solo in questa lotta.

Alessandro Cortese racconta questa storia con uno stile scorrevole, usando molto spesso espressioni tipicamente siciliane che servono ad entrare meglio nella vicenda narrata; c’è nel suo modo di raccontare tutto lo sgomento di un bambino che avverte che qualcosa di terribile si è abbattuto sulla sua realtà fanciullesca ma non riesce a toccare con mano quanto sia profondo e tetro l’orrore che gli si è presentato davanti; si rende conto che la finzione è una sorta di anestetico usato dalla gente per poter simulare una vita normale e ciò lo getta nello sgomento senza però mai paralizzarlo.

 

In Sicilia è tutto teatro. È tutta Opera di Pupi, di pupari e spettatori e non si capisce bene chi è pupo, chi è puparo e chi è spettatore.

 

Questo è un libro che consiglio vivamente di leggere, affinchè ci rendiamo conto che ognuno di noi può farsi carico anche di una piccola azione “positiva” per non permettere ad una mentalità omertosa di mettere le radici, perchè lo sappiamo, l’omertà può nascondersi in qualsiasi ambito, ma soprattutto affinchè non dimentichiamo, perchè non dimenticare ed essere consapevoli che la Mafia esiste anche quando sembra dormiente, è un dovere.

 

  

 

 

  

 

  

sabato 29 gennaio 2022

 


Ciao a tutti, oggi vi parlo di un libro che considero un vero gioiello, “Tre monologhi. Penna, Morante, Wilcock” di Elio Pecora.

Elio Pecora è un poeta, scrittore, saggista e critico letterario di origini campane che verso la fine degli anni ’60 si trasferirà a Roma. Nella sua lunga carriera letteraria ha conosciuto diverse figure eminenti del panorama intellettuale italiano e di alcuni fu amico.

Ed è proprio a tre di loro che dedica la sua ultima opera: Sandro Penna, Juan Rodolfo Wilcock ed Elsa Morante, con tre monologhi, in cui i tre scrittori sono delineati con una vicinanza e un affetto tali da sentirli ancora tutti e tre vivi e palpitanti accanto.

L’opera inizia con  un Sandro Penna, che affida ad un registratore il racconto della sua vita e facendoci addentrare nei meandri della sua “quieta follia”, ci accompagna nel suo passato tormentato: un rapporto conflittuale con i suoi genitori, il suo vivere appartato e l'amore verso i “fanciulli” descritto con estrema delicatezza e pudore in alcune sue poesie. Elio Pecora, attraverso la voce di Sandro Penna permette di aggirarci nella sua stanza traboccante di libri, panni, carte, quadri e cianfrusaglie come quasi ad alleviare la sua solitudine .

 

Sapevo di essere diverso dalla truppa dei rassegnati, piegati all’impiego, ubriachi del niente. Ne avevo compassione, come ne ho avuta di me stesso costretto ad arrendermi alle necessità di ogni giorno. Mi dicevo che le mie rese erano solo una parte del mio tempo: la mia vita vera era altra e altrove. Sapevo che va amata per intera la vita. Dovrebbe esserci cara in ogni suo aspetto. Invece la subiamo, per la massima parte, come una fatica. La poesia ne trae momenti in cui l’essenza coagula, ed è l’inesprimibile che si manifesta.

 

Il secondo monologo è su Wilcock, ma qui non è lo scrittore a parlare del suo vissuto ma “ un lettore strambo e interessato. Ha letto che il suo amatissimo Bolaño aveva nominato Wilcock come suo maestro e ha cominciato a interessarsi all’argentino – divenuto scrittore italiano – prima leggendo i suoi libri, poi cercando notizie su di lui.

Anche questo monologo narra la vita di un uomo solitario, ma Wilcock esprime in maniera diversa il suo mantenersi separato dal genere umano; uomo dal carattere scontroso e difficile, crea un mondo di fantasia grottesco e mostruoso.

 

“Forse, per godere delle sue scritture e fantasie, bisogna rovesciare le estetiche. Venere può innamorarsi della scimmia e un mostro può essere fatto di tanti specchietti che riflettono un’infinità di colori che, mentre abbagliano, moltiplicano la vista e danno pensieri diversi mai risolutivi. I suoi mostri somigliano fin troppo agli uomini e alle donne che affollano le nostre giornate.”

 

L’ultimo monologo è quello che ho sentito più accorato, e racconta di Elsa Morante.

Ci viene descritta una donna sola, che vive con tormento la propria interiorità e si aggira per una Roma dove i fantasmi delle creature generate dalle sue opere le si muovono accanto. In questo monologo la vita esteriore di Elsa è appena accennata mentre vengono narrate con dolorosa partecipazione le angosce di una donna che ha cercato di estirparle con la scrittura.

 

Il demone! Da quale punto della mente, per quale soffio, spinta, si mostrano, si pronunciano quelli che vengono ad abitare nelle sue frasi, in quei puntelli di sillabe, di accenti? E con l’illusione (quanto pagata!) di reiventare il mondo da un’altra parte, dove perfino la morte è il punto estremo di un gioco. Cominciò da un’inquietudine che si fece largo nel rumore di una casa affollata, in una ressa di voci discordanti. Era affaticante e dolorosa la veglia! L’oscurità l’accecava. Allora, bisognava lasciarsi all’altrove del sogno. Imparò presto a negarsi. Cercò dentro e dietro tanto rumore il silenzio, quel silenzio riempì di voci, per un teatro solo suo.

 

Elio Pecora, in questa sua ultima opera restituisce voce e corpo a personaggi della letteratura italiana che colpevolmente stiamo dimenticando. Esistono scrittori come questi, che hanno il diritto di essere posti accanto a quelli più famosi della seconda metà del Novecento. Leggere quindi Tre monologhi. Penna, Morante, Wilcock” è un regalo postumo che facciamo a loro e a noi stessi affinchè la loro vita e le loro opere non finiscano nell’oblio.