domenica 14 maggio 2023

 


Ciao a tutti,

oggi vi presento un altro romanzo edito dalla casa editrice “Il ramo e la foglia edizioni”: “Anche se fosse vero” di Davide Antonio Pio.

Non vi nascondo che è stato il libro più strano e in certi tratti complesso che mi sia trovata a leggere, ma non per questo meno interessante, anzi, la sua struttura e il suo evolversi hanno stuzzicato la mia curiosità, tanto che senza fatica ho terminato le quasi 150 pagine di cui è composto il romanzo.

In quest’opera divisa in cinque parti, cullati dal rumore delle acque del lido di Venezia, si dipanano le vite di diversi personaggi, alcuni seguiti dall’autore per poche pagine e in un arco di tempo molto breve, altri invece affiancati per quasi la loro intera vita.

Tutti i personaggi sono in qualche modo legati tra di loro, ma il legame e ciò che si nasconde tra le righe sta al lettore ricostruirlo, l’autore non facilita in alcun modo chi legge, solleticando la sua fantasia e creatività.

Il tutto è raccontato così come si mostra un quadro o si guarda un panorama: senza giudizio o sentimentalismi; è il lettore che deve farsi un’idea e provare trasporto per le vicende dei personaggi in base alla ricostruzione che lui stesso si è fatta dentro di sé.

Ogni tanto l’autore si abbandona a qualche veloce disquisizione filosofica, buttata velocemente quasi ad indicare una direzione, come una sorta di guida nel susseguirsi degli anni narrati in cui i personaggi vivono, si innamorano, e in cui morti violente o incidenti si avvicendano a nascite e amori; il tutto senza mai entrare nei dettagli, ma lasciando aleggiare sempre una patina di non detto ma immaginabile.  

Il vero protagonista del romanzo sembra essere la Vita, che si svolge nella sua semplicità quasi banale, e che con le sue fila talvolta sottili e trasparenti, altre volte più tenaci e spesse, lega tra di loro individui, intrecciandone senza che loro stessi ne siano consapevoli i loro destini.

Ecco a voi un estratto dalla pagina iniziale:

Potessimo, in quell’età macchinosa in cui ciascuno si chiede trecento volte al giorno trovando solo risposte angoscianti: <<perché qui?Perché in questa forma?Perché niente di ciò che sembra così spalancato agli altri risponde al mio richiamo?Perché di mille leggi che il mio corpo segue spontaneamente non si trova traccia nei corpi che mi attraggono?...>> dico... potessimo in quell’età, avere ali come il santo fatto Leone che qui spadroneggia e raggiungere come calamitati il punto della storia di ciascuno in cui le cose cambiano, il tratto del fiume in cui la corrente accompagna anzichè travolgere.”

Sta a voi, ora continuare nella lettura e avere voglia di fare un interessante viaggio nei meandri di questo puzzle.


domenica 26 marzo 2023

 


Uscii dal mio nascondiglio soltanto quando fui certo che gli alianti se ne fossero andati. Le loro grandi ombre avevano cessato di danzare silenziose sulla sabbia, tremolando come luci nell’acqua ogniqualvolta incontravano dei rottami affioranti dalla pelle granulosa del deserto; e fu allora, sgattaiolato fuori dall’anfratto in cui avevo trovato rifugio-non era poi altro che l’abitacolo rugginoso d’una vecchia automobile rovesciata-che riconobbi un complice sorriso nelle larghe cromature ossidate, di quello e dai tanti veicoli ammassati all’intorno. Mentalmente li ringraziai. Dopo giorni e giorni vissuti da braccato, avevo bisogno di un po' di cordialità, anche solo quella metallica di qualche centinaio di auto abbandonate.”

Questo è l’incipit di “Navi nel deserto”, romanzo d’esordio di Luigi Weber, Professore Associato presso il Dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell’Università di Bologna.

Già da queste poche righe si può intuire il contesto in cui è ambientato il romanzo: l’ammasso di rottami d’auto in cui il personaggio trova riparo e l’accenno al deserto fanno presagire un’epoca post-apocalittica in cui il passato tecnologico defunto si combina con l’uso di fantomatici alianti utilizzati da chi sta braccando l’uomo.

A queste inquietanti premesse si aggiungeranno altre immagini affascinanti e anch’esse inquietanti, che rimandano al titolo dell’opera: navi con ruote che si muovono lungo piste nel deserto.

Il romanzo è quindi ambientato in un futuro molto lontano, si spera, in cui non ci sono più nè mari nè corsi d’acqua, dove impera nella sua maestosità crudele il deserto, tranne qualche Oasi o alcune “Rocche”, città fortificate costruite in alto su montagne.

Troviamo che invece si muovono come nomadi, degli uomini che hanno deciso di abbandonare le Rocche, e che coraggiosamente si sono imbarcati su queste gigantesche navi; a loro si aggiungerà una nave che si destreggia spietatamente nel deserto, alla ricerca di altre navi da saccheggiare, seminando morte per il solo gusto di procurare sofferenze atroci, la nave dei pirati capitanata da Schomberg.

Luigi Weber descrive in maniera accurata e cruda una società ipocrita, piena di preconcetti verso chi non si adegua a delle regole sancite in base ad una vuota apparenza, e ciò vale per tutti, marinai delle Navi, abitanti di Oasi e Rocche, ma il tutto molto più accentuato e descritto con straordinaria attenzione per questi ultimi che come le loro città vivono arroccati su un'asfissiante perbenismo.

In questa storia, seguiremo le vicende di un capitano giovanissimo, neofita della vita vagabonda delle navi, Joseph Conrad, designato tale dal suo predecessore, nonostante provenga da una Rocca, decisione che lascia contrariati i suoi sottoposti; poi incontreremo un altro capitano, Julian Sands, la cui vita si intreccerà con quella di Freya, una giovane fanciulla che conoscerà in una delle Oasi; ci verrà presentato un traditore che si muoverà in maniera astuta tra navi e Rocche; e infine seguiremo lo stesso pirata Schomberg, nelle sue perverse scorribande.

Durante la narrazione sentiremo il sapore amaro di antiche rimembranze, in cui la vita scorreva normalmente così come la conosciamo oggi e tutto ciò si mescolerà con il tentativo di alcuni personaggi di condurre una vita il più accettabile possibile, ma le loro vicende ad un certo punto si influenzeranno vicendevolmente in maniera tragica, anche se alcuni di loro non si conosceranno mai di persona, e tutto ciò dona un retrogusto amaro e per questo ancora più estremamente affascinante a tutta la storia.

Il romanzo alterna in maniera sapiente  il racconto diaristico in prima persona a quello del narratore onnisciente in terza persona, riuscendo a farci immedesimare nei tormenti, dubbi e riflessioni dei personaggi; ne esce un racconto  corale in cui ciascuno di loro risulta importante quanto gli altri e la loro intima essenza si mostra trasparente.

Questo romanzo ha la particolarità di essere un omaggio allo scrittore Joseph Conrad, infatti ogni personaggio ha il nome di personaggi tratti dai suoi romanzi, una scelta fatta dall’autore in onore di uno scrittore che come riferisce in una sua intervista, ha avuto un notevole impatto su di lui, cosicché il racconto delle lore vite in “Navi nel deserto” riporta alla memoria le vicende degli stessi personaggi nei romanzi di Conrad, in un afflato letterario molto suggestivo.

In “Navi nel deserto” non ci sono però solo echi di Conrad, ma anche di Melville, Philip Dick, Joseph Roth fino ad arrivare alle fiabe persiane e le tragedie greche, sapientemente uniti dalla sensibilità dell’autore che ha filtrato le sue esperienze letterarie mediante il suo vissuto, e attraverso una lunga gestazione, ha creato come risultato questo affascinante e originale romanzo in cui la fantascienza, lo stile post-apocalittico e quello del romanzo d’avventura si mixano in maniera coinvolgente senza mai eccedere con gli ingredienti.

Quest’opera contiene dentro di sè, tra i vari livelli di lettura, anche un’amara constatazione sull’umanità, che mi ha portato a riflettere sugli avvenimenti che sono accaduti in questi ultimi anni: nonostante gli eventi catastrofici che si intuisce si sono succeduti in maniera drammatica e che pur nel loro orrore avrebbero potuto avere l'unico pregio di servire da collante per non soccombere, si percepisce una  riflessione molto poco ottimista che ha l’autore del genere umano: il pregiudizio, l’ipocrisia e l’egoismo saranno sempre scogli insuperabili se non si riuscirà ad entrare empaticamente in comunione con il prossimo e lo si abbraccia nella sua diversità.

venerdì 9 dicembre 2022

 


Niente mi fa paura come il sesso. Se conosco qualcuno che mi piace, l’istinto a sedurlo si ferma proprio quando sembra che possa succedere qualcosa. Allora, lascio all’altro l’iniziativa, perchè mettersi nella condizione della vittima conferma la paura, ma almeno non mi rende più responsabile; oppure, lascio perdere, mi dico che mi sono sbagliato, non succederà niente, e scappo.”

Ecco qui l’incipit dell’ultimo romanzo pubblicato da Il ramo e la foglia edizioni, La vita nascosta” di Raffaele Donnarumma, professore universitario di Letteratura Italiana contemporanea all’Università di Pisa. Scrittore di saggi, con quest’opera è autore del suo primo romanzo.

Il protagonista è una sorta di alter ego dello scrittore, professore di Italiano e con un nome che inizia come il suo, R., ma come Donnarumma ci tiene a precisare in un’intervista rilasciata ultimamente, non è un’autobiografia ma più che altro una sorta di auto-fiction.

L’incipit ci porta ex-abrupto nel tormento interiore del personaggio, dilaniato dall’insicurezza e dal non riuscire a farsi mai coinvolgere sul serio dagli eventi della sua esistenza.

R. dopo una relazione durata una ventina d’anni, tradito ed avendo tradito a sua volta, si trova improvvisamente di fronte ai suoi demoni interiori e come in una sorta di diario sveviano si affida ad una rigida disamina dei suoi sentimenti e pensieri.

Per cercare di combattere questo malessere interiore, anche sostenuto dalla sua amica Anna, si iscrive in palestra, frequenta siti d’incontri e di entrambi fa una divertente ma anche sarcastica analisi.

“Il vitalismo delle palestre, come le loro luci, la musica a palla, i colori sparati sui muri, l’allegria sudata degli istruttori di fitness o di pilates, è l’apparato decorativo di un istinto rabbioso alla mortificazione di sé, la chiesa barocca di stucchi e marmi tramischi costruita sopra un ossario.”

In un sito d’incontri conosce un ragazzo, L., di almeno dieci anni più giovane di lui, con cui inizia una relazione clandestina perchè quest’ultimo già legato ad un’altra persona, ma nonostante tutto appagante, almeno all’inizio, anche se impostata in maniera diversa da quelle precedenti, un rapporto più passivo e sottomesso, dipendente dagli umori del suo nuovo compagno.

Ben presto però, la differenza d’età e il fatto che il ragazzo sia uno studente in procinto di un dottorato nella sua stessa Università, mentre lui, un professore affermato, fanno cambiare gli equilibri di questo rapporto e senza che se ne renda conto ma via via sempre più consapevole, le distanze crescono sia nell’esternazione dei sentimenti sia dentro di lui che paradossalmente si scopre invischiato in un rapporto non confinato più solo al sesso ma in un vero e proprio innamoramento.

Qui le pagine del romanzo si fanno più sofferte, e tutta l’angoscia del personaggio comincia ad affiorare prepontemente nella contraddizione tra le sue riflessioni di un amore monco, privo di una vitalità necessaria a tenerlo in piedi e le sue azioni, che lo inducono a ergersi a salvatore di un compagno che si lascia trascinare dalla vita e che subisce il sentimento di R. piuttosto che lasciarsi coinvolgere, rendendo R. sempre più dipendente da questo amore apatico fino alla decisione finale a cui il protagonista decide di affidarsi per salvarsi.

Questo romanzo, è un’autentica chicca da leggere per prendere consapevolezza della nostra vita, quella nascosta fra i significati dei nostri atti, esternazioni a volte di zone del nostro inconscio buie e dolorose, e qui il personaggio lo fa attraverso le parole di Donnarumma che usa uno stile fortemente introspettivo e scorrevole, in cui ogni parola porta con sè un carico di significato che trascende quello semantico e induce in noi una catarsi che solo le migliori opere riescono a fare.


domenica 16 ottobre 2022

 


Ciao a tutti, oggi vi presento un altro romanzo edito da “Il ramo e la foglia edizioni”, “L’età della rovina” il romanzo d’esordio di Francesco Tronci.

Il romanzo è ambientato in un periodo di apparente grande fermento politico, in una società dove è in fibrillazione, sempre in maniera apparente, la voglia di cambiamenti e riforme, e in cui i cittadini credono di poter essere artefici del proprio destino come di quello del Paese.

I principi fondamentali dell’età della rovina, una nuova costituzione non scritta e senza autori diretti, venivano ripetuti ossessivamente dai rappresentanti del potere politico a ogni buona occasione, intervista, dichiarazione sui giornali, comizio in piazza o conferenza. Non sembravano parole vestite dal conforto tiepido di una riflessione profonda, ma accrocchi di sillabe che pretendevano di stabilire in che direzione la società avrebbe dovuto muoversi, ora che si navigava da anni in questa nuova età che nessuno aveva mai chiamato età della rovina. Declamavano il valore nobile dell’iniziativa individuale e della creatività contro il pessimismo e la mancanza di inventiva.”

 Seguiamo le vicende contorte, le meschinità politiche attraverso la vita di colui che nel romanzo non avrà mai un nome ma sarà sempre definito dal ruolo che gli è stato affibbiato dalle circostanze: “l’aspirante”; e un nome non l’avrà nessuno dei personaggi che si avvicenderanno sul palcoscenico della narrazione. Ecco, perchè sì, il romanzo sembra una rappresentazione teatrale, che ha in sè qualcosa di tragico e allo stesso tempo grottesco, dove le parole vengono contaminate dallo squallore intimo dei personaggi che attorniano l’aspirante e il loro significato piegato e lordato ad uso e consumo dei vari attori della scena.

Seguiremo le vicende dell’aspirante, che in quanto tale aspira semplicemente ad un lavoro dopo essersi laureato, ma che colleziona solo una serie di stage con belle promesse, intervallati da periodi di speranza angosciosa. Durante il racconto delle sue vicende, verremo resi partecipi anche delle ansie e preoccupazioni dei genitori stessi del protagonista: costretti a vivere e a cambiare in continuazione case in affitto senza riscaldamento, perchè perseguitati da creditori e padroni di casa incuranti del loro stato di quasi indigenza, conducono la loro grama vita richiedendo in continuazione finanziamenti per pagare i loro debiti.

L’aspirante impossibilitato a crearsi un suo posto nella società, vive insieme ai genitori e si arrabatta per non lasciarsi schiacciare dagli eventi mentre la madre contribuisce facendo da badante notturna senza possibilità di ferie o malattie.

Mentre i personaggi principali si trascinano alla bell’e meglio, nel panorama politico si  confrontano i due partiti principali, Il Partito del Progresso e il Partito della sicurezza; è tutto un susseguirsi di accesi dibattiti televisivi, pieni di promesse di liberazione dalla schiavitù economica e dall’insicurezza sociale dilagante.

La popolazione prende posizione, urla nelle piazze, illusa di poter avere un ruolo attivo; ma quelli che non hanno diritto nemmeno a sollevare la testa e a dare fiato alle loro richieste sono proprio i poveri, guardati con disgusto da tutti, perchè essere poveri è una colpa, un peccato capitale che rende indegni della stessa vita.

L’aspirante aveva appreso col tempo, senza necessità di particolari istruzioni, che le sue lamentele andavano espresse con moderazione, giacché le lamentele dei poveri hanno un insolito 13 potere disturbante. Nell’età della rovina nessuno aveva mai prestato attenzione a un’elementare evidenza: gli unici a lamentarsi, e a lamentarsi della propria condizione con notevole disinvoltura, non erano gli ultimi della coda, ma tutti gli altri, senza imbarazzo. La loro doglianza reclamava modernizzazione, «diritto al futuro!» gridavano, l’età della rovina apprezzava la pretesa di futuro, l’attitudine propositiva e l’intuizione creativa, queste erano le sole doglianze feconde. Invece le parole degli ultimi suonavano stordenti, tessere di una voce senza futuro che, a chiedersi come sarebbe stato domani, era già sfibrata. Così i poveri, per non risultare inopportuni, si davano una regolata.”

Francesco Tronci ci mostra lo spaccato di una società irrimediabilmente corrotta, nemmeno lontanamente conscia di essere stata intaccata  da un grande male, quello del cinismo che induce al calcolo e alla mancanza di empatia, in definitiva “un’età della rovina” che prima o poi imploderà. Lo scrittore con uno stile scorrevole e con una grande attenzione dedicata all’aspetto sociologico e ai risvolti filosofici delle vicende, ci guida verso una profonda riflessione sulla nostra stessa società, così simile a quella del romanzo e a prendere le distanze da certi meccanismi malsani di cui potremmo essere vittime o paradossalmente carnefici noi stessi.


mercoledì 17 agosto 2022

 

Salve a tutti,

vi aggiorno su una nuova rubrica che entrerà a far parte a breve del mio blog: le figure retoriche, le loro origini, il loro uso; insomma tutto ciò che le può riguardare anche solo lontanamente. Le figure retoriche mi hanno da sempre affascinato e molto spesso mi è capitato di leggere più volte una stessa frase di un libro ammaliata dal presentarsi di una di loro.

Non so con quale cadenza però, perchè i miei impegni sono molto spesso un ostacolo al mio desiderio di far crescere questo blog, che ultimamente si è limitato ad essere una serie di recensioni di libri, una cosa che adoro fare, beninteso, ma vorrei che il mio blog fosse qualcosa di più. Vorrei anche dedicarmi di più alle altre rubriche che ho trascurato in questi anni e farmi venire delle idee sulla creazione di altre (qualcosa bolle in pentola, ehm, ecco  qua una figura retorica , ma non è ancora niente di definito).

A presto allora!

 

domenica 31 luglio 2022

 


Ciao a tutti, oggi voglio presentarvi un libro molto particolare, una raccolta di racconti dal titolo “Codice a sbarre” e sottotitolo “Storie di assenti e di simbionti in cattività”, l’opera di esordio di una giovane scrittrice che è anche attrice, Giulia Tubili.

Il titolo mi ha colpito sin da subito, come anche l’emblematica immagine di copertina: il profilo di una persona e del filo spinato che sembra attraversarle il capo.

Tutto questo mi ha incuriosito e mi sono buttata a capofitto nella lettura dei racconti.

Ebbene, mi sono resa conto che mai nessun titolo e immagine sono stati più azzeccati, perchè mi sono trovata catapultata in un mondo asfissiante e atmosfere cupe in cui i vari personaggi agiscono, o pensano di agire, rimanendo invischiati nei loro pensieri o nei loro atti.

Alcune storie sono effettivamente ambientate in carceri, ma ciò che le accomuna tutte, è la sensazione di reclusione in cui vivono i vari protagonisti a prescindere dalla situazione che si trovano a vivere.

Ogni personaggio sembra vittima delle proprie azioni e delle tormentate elucubrazioni mentali a cui sottopone se stesso.

Le sbarre quindi, che siano effettive o meno, sono quelle di cui si circondano i protagonisti segnando una netta separazione dal mondo che li circonda.

La particolarità di quest’opera è che non c’è mai una premessa per introdurre il lettore a ciò che sta per leggere: in ogni storia ci si trova sempre già “in medias res”, ciò che sta per succedere o il personaggio e la sua situazione diventano più chiari man mano che si procede con la lettura; insomma il lettore si trova lanciato a capofitto già in un particolare momento che culminerà sempre in un gesto o in una spiegazione che sveleranno la situazione lasciandolo quasi stordito e senza fiato per lo stupore.

Lo stile di Giulia Turbili non è molto scorrevole, c’è una certa tortuosità nelle frasi e le storie sono piene di immagini che si susseguono in maniera fitta; però anche se all’inizio tutto ciò mi ha reso un pò difficoltosa le lettura, man mano l’ho apprezzato e l’ho trovato congeniale allo svilupparsi dei racconti, volti ad essere resi ancora più cupi da atmosfere che sono un mix tra il giallo il noir e il thriller; alcune scene splatters possono sembrare disturbanti ma il tutto è funzionale a toccare quasi con mano il senso di alienazione dei personaggi che consci o meno delle conseguenze delle loro azioni e pensieri, si autorecludono in una prigione senza alcuna speranza e via d’uscita.

L’autrice ha sviscerato sin nel profondo la psiche umana traendone il torbido e il marcio che molto probabilmente alberga in ciascuno di noi; in queste storie il lettore troverà impostori, condannati a morte, assassini, insomma il peggio dell’umanità.

Una lettura che consiglio a chiunque voglia immergersi nella lettura di un’opera che potrebbe rivelarsi anche una sorta di autoanalisi, che sicuramente  avrà un forte impatto emotivo in chiunque avrà voglia di cimentarsi in questo viaggio “nel sottosuolo”.

 

 

 

lunedì 25 aprile 2022


Ero io che mi aspettavo qualcosa di eroico da me stessa. Ero io che mi sentivo da sempre votata alle grandi azioni degli uomini e non alle meschine cure domestiche a cui la storia aveva condannato il mio sesso. Fin da bambina mi ero appassionata alle avventure dei cavalieri e avevo maledetto la sorte che mi aveva fatto donna, assegnandomi un ruolo di secondo piano a cui mi era difficile adattarmi. Occuparmi della casa non era quello per cui mi sentivo chiamata e vivere all’ombra di un uomo non faceva per me. Avevo più fegato di molti uomini che avevo conosciuto.
È così che si descrive la protagonista del romanzo “Memorie di un’avventuriera” di Emanuela Monti, nuova uscita della casa editrice “Il ramo e la foglia edizioni”. Prima donna a diventare commediografa nell’Inghilterra del XVII secolo, Aphra Behn non è purtroppo molto conosciuta attualmente nel panorama letterario, ma devo dire che la sua è stata sicuramente una vita straordinaria e fuori dagli schemi, e per certi versi lo sarebbe anche ora. 
Aphra Behn nata nella contea di Kent nel 1640 e morta a Londra nel 1689, era figlia di un barbiere e sin da bambina amava scrivere versi e teneva un diario. La mamma non vedeva di buon occhio queste fantasie, invece il padre ne era orgoglioso e la supportò sempre. Durante la sua giovinezza frequentò la nobiltà e l’alta borghesia, e quando il padre venne nominato “Luogotenente Generale del Surinam”, si trasferì con la sua famiglia nelle Indie Occidentali; ma il padre morì durante il viaggio e a partire da questa perdita la vita di Aphra si fece molto complicata soprattutto quando tornò in patria. 
Divenne addirittura una spia per conto di Carlo II e dovette arrabattarsi per sostenersi economicamente in un’Inghilterra che attraversava uno dei momenti più difficili della sua storia: la decapitazione di Carlo I e la conseguente salita al potere di Cromwell e dei puritani e il suo successivo crollo con il ritorno degli Stuart. Le accadde anche di finire in carcere perchè incapace di pagare i suoi debiti e spesso dovette concedere il suo corpo pur di racimolare qualche soldo.
Provavo una sensazione elettrizzante al pensiero di avere l’arbitrio assoluto della mia vita. Non avevo né padre né marito né fratelli in età tale da potermi imporre la loro volontà o a cui dovessi rendere conto. E quella condizione di libertà avrei voluto conservarla per sempre. Ma questo sarebbe stato possibile soltanto se avessi trovato il modo di guadagnarmi da vivere. E nella Londra di quei giorni era un’impresa ancora più disperata del solito: la peste si stava diffondendo con allarmante rapidità.
In questa vita difficile Aphra non si perse mai d’animo; il suo spirito indipendente e libero non l’abbandonò mai e nonostante vivesse spesso nelle ristrettezze riuscì a trovare il tempo per dedicarsi a ciò che amava tanto: la commedia. Divenne una fervida commediografa e alternava questo lavoro con quello di copiatura di testi. Divenne molto famosa e apprezzata ma allo stesso tempo la società inglese mal digeriva la sua vita libera e anticonformista. 
Anche una drammaturga è una donna pubblica. E infatti non è troppo diversa la considerazione che si ha di me e non a caso la critica principale che mi viene mossa è quella di essere sconcia.
Emanuela Monti ci descrive con affetto questa donna incredibile in un romanzo in cui l’alternarsi dello stile epistolare e quello del memoir narrato in prima persona dalla protagonista rendono più vivida e palpabile la sua persona; e anche se, ci sono lacune che nella sua accurata ricerca non è riuscita a coprire, l’autrice ha deciso di colmarle appellandosi al principio di verosimiglianza e sempre nel rispetto della commediografa inglese. 
Dalla lettura di questo romanzo si esce arricchiti: la vita di Aphra Behn la si può considerare la vita coraggiosa di una donna che non si arrese mai di fronte al disprezzo di una società che concepiva la donna come un oggetto privo di una propria identità, che dovesse essere dedita solo a vivere dentro le mura di una casa e a dare discendenza. Ebbene, una donna come Aphra, che decise di non farsi mai schiacciare dal maschilismo dilagante anche tra le stesse donne, e che pagò a caro prezzo la sua indipendenza, merita un inchino da parte di tutti noi e come scrisse Virginia Woolf :
“E tutte le donne insieme dovrebbero cospargere di fiori la tomba di Aphra Behn…perché fu lei a guadagnarci il diritto di pensare ciò che ci pare…”