domenica 18 dicembre 2016



Enrico Vallesi, originario di Bari, vive da anni a Firenze ed è uno scrittore che ormai si dà solo a lavori di editing di manoscritti di altri autori. Bloccato dal successo del primo romanzo di dieci anni prima e abbandonato dalla sua fidanzata vede sconvolgere la routine della sua piatta esistenza da una notizia letta su un quotidiano: un ex compagno di scuola del liceo è morto in uno scontro a fuoco a Bari con le forze dell'ordine, un compagno che ebbe un' enorme influenza durante la sua adolescenza. Immediatamente decide di fare ritorno nella sua città dopo tanti anni. Inizia così un viaggio a ritroso nel tempo fra i ricordi e contemporaneamente un viaggio nel presente, come in una sorta di confronto tra ciò che era e ciò che è rimasto dentro e fuori di lui.
Secondo me, questo è uno dei romanzi che completa il suo senso solo considerando anche il titolo e l'immagine della copertina: due ragazzi che si tuffano in acqua. Essi rappresentano uno dei ricordi più evocativi presenti nel libro, una delle sue paure più bloccanti: lanciarsi nell'ignoto. I due ragazzi diventano la personificazione del tanto ossessivo per il protagonista, "bordo vertiginoso delle cose".

La storia, con un linguaggio intimo e delicato, non narra solo un viaggio fisico nella città e un altro tra i ricordi della sua adolescenza ma anche la decisione finalmente di affrontare faccia a faccia questo "bordo vertiginoso delle cose", accettare l'inevitabile terremoto interno che provoca tale confronto e abbandonarsi ad esso per riemergere: "Poi qualcosa ti ferma sulla porta. Succede che te ne renda conto; o forse è la prima volta dopo tanto tempo che ti rendi conto davvero di qualcosa su di te. Hai appena infilato la giacca quando ti metti a piangere, come se qualcuno avesse fatto scattare un interruttore silenzioso e inevitabile. Prima piangi piano, in silenzio, quasi a non voler disturbare. Poi più forte fino a quando non arrivano i singhiozzi e la pena disperata per la tua solitudine e il tuo fallimento e il tuo fare finta di niente e l'amore perduto e non più ritrovato, e tuo padre e tua madre che non hai mai conosciuto davvero e adesso è tardi e per tutta questa vita che ti è passata accanto e che non sei stato capace di vivere perchè volevi soltanto raccontarla, e non sei stato capace di fare neanche quello".

sabato 3 dicembre 2016



Cinquanta persone improvvisamente si trovano catapultate in un luogo imprecisato: un grande stanzone con un misterioso e buio corridoio che porta chissà dove. Cosa succederà?
Questo è l’interrogativo che il lettore si pone sin dall’incipit accompagnato da una voce narrante che parlando in prima persona racconta da “osservatore esterno” quello che succede all’interno del luogo addentrandosi addirittura nei pensieri delle persone.
Ecco quindi che il lettore familiarizza con il puro terrore che avvince all’inizio i malcapitati, si rende partecipe del loro smarrimento e man mano rimane invischiato nel disgusto quando la situazione degenera e viene mostrato a che livello di disumanità è in grado di giungere il genere umano.
Ciò che avviene in questo luogo è la rappresentazione in piccolo di ciò che ogni giorno accade o può accadere sul nostro pianeta e lo scrittore lo racconta con uno stile pesante, claustrofobico che attanaglia il lettore fino alla fine.
Come ogni libro di quest’autore, di cui ho già letto altri romanzi, anche quest’ultimo invita a riflessioni profonde su di noi in quanto esseri umani … se poi davvero di “umano” abbiamo qualcosa quando si tratta di “salvare la nostra pelle”.