Ciao
a tutti, oggi vi parlo di un libro che considero un vero gioiello, “Tre
monologhi. Penna, Morante, Wilcock” di Elio Pecora.
Elio
Pecora è un poeta, scrittore, saggista e critico letterario di origini campane
che verso la fine degli anni ’60 si trasferirà a Roma. Nella sua lunga carriera
letteraria ha conosciuto diverse figure eminenti del panorama intellettuale
italiano e di alcuni fu amico.
Ed
è proprio a tre di loro che dedica la sua ultima opera: Sandro Penna, Juan
Rodolfo Wilcock ed Elsa Morante, con tre monologhi, in cui i tre scrittori sono
delineati con una vicinanza e un affetto tali da sentirli ancora tutti e tre
vivi e palpitanti accanto.
L’opera
inizia con un Sandro Penna, che affida ad un registratore il
racconto della sua vita e facendoci addentrare nei meandri della sua “quieta
follia”, ci accompagna nel suo passato tormentato: un rapporto conflittuale
con i suoi genitori, il suo vivere appartato e l'amore verso i “fanciulli”
descritto con estrema delicatezza e pudore in alcune sue poesie. Elio Pecora,
attraverso la voce di Sandro Penna permette di aggirarci nella sua stanza
traboccante di libri, panni, carte, quadri e cianfrusaglie come quasi ad
alleviare la sua solitudine .
Sapevo
di essere diverso dalla truppa dei rassegnati, piegati all’impiego, ubriachi
del niente. Ne avevo compassione, come ne ho avuta di me stesso costretto ad
arrendermi alle necessità di ogni giorno. Mi dicevo che le mie rese erano solo
una parte del mio tempo: la mia vita vera era altra e altrove. Sapevo che va
amata per intera la vita. Dovrebbe esserci cara in ogni suo aspetto. Invece la
subiamo, per la massima parte, come una fatica. La poesia ne trae momenti in
cui l’essenza coagula, ed è l’inesprimibile che si manifesta.
Il
secondo monologo è su Wilcock, ma qui non è lo scrittore a parlare del suo vissuto
ma “ un lettore strambo e interessato. Ha letto che il suo amatissimo
Bolaño aveva nominato Wilcock come suo maestro e ha cominciato a interessarsi
all’argentino – divenuto scrittore italiano – prima leggendo i suoi libri, poi
cercando notizie su di lui.”
Anche
questo monologo narra la vita di un uomo solitario, ma Wilcock esprime in
maniera diversa il suo mantenersi separato dal genere umano; uomo dal carattere
scontroso e difficile, crea un mondo di fantasia grottesco e mostruoso.
“Forse,
per godere delle sue scritture e fantasie, bisogna rovesciare le estetiche.
Venere può innamorarsi della scimmia e un mostro può essere fatto di tanti
specchietti che riflettono un’infinità di colori che, mentre abbagliano,
moltiplicano la vista e danno pensieri diversi mai risolutivi. I suoi mostri
somigliano fin troppo agli uomini e alle donne che affollano le nostre
giornate.”
L’ultimo
monologo è quello che ho sentito più accorato, e racconta di Elsa Morante.
Ci
viene descritta una donna sola, che vive con tormento la propria interiorità e
si aggira per una Roma dove i fantasmi delle creature generate dalle sue opere
le si muovono accanto. In questo monologo la vita esteriore di Elsa è
appena accennata mentre vengono narrate con dolorosa partecipazione le angosce
di una donna che ha cercato di estirparle con la scrittura.
Il
demone! Da quale punto della mente, per quale soffio, spinta, si mostrano, si
pronunciano quelli che vengono ad abitare nelle sue frasi, in quei puntelli di
sillabe, di accenti? E con l’illusione (quanto pagata!) di reiventare il mondo
da un’altra parte, dove perfino la morte è il punto estremo di un gioco.
Cominciò da un’inquietudine che si fece largo nel rumore di una casa affollata,
in una ressa di voci discordanti. Era affaticante e dolorosa la veglia!
L’oscurità l’accecava. Allora, bisognava lasciarsi all’altrove del sogno.
Imparò presto a negarsi. Cercò dentro e dietro tanto rumore il silenzio, quel
silenzio riempì di voci, per un teatro solo suo.
Elio
Pecora, in questa sua ultima opera restituisce voce e corpo a personaggi della
letteratura italiana che colpevolmente stiamo dimenticando. Esistono scrittori
come questi, che hanno il diritto di essere posti accanto a quelli più famosi
della seconda metà del Novecento. Leggere quindi “Tre monologhi. Penna, Morante, Wilcock” è un
regalo postumo che facciamo a loro e a noi stessi affinchè la loro vita e le loro opere non
finiscano nell’oblio.